Due studi americani confermano la possibilità di individuare la malattia anche 20 anni prima
La malattia di Alzheimer, o almeno alcune delle sue varianti, possono essere diagnosticate 15 o 20 anni prima dell’insorgenza della sintomatologia severa. Lo confermano due recenti studi statunitensi, i quali si sono concentrati uno sui cambiamenti clinici e biochimici in figli di pazienti con Alzheimer di forma autosomica dominante, e uno sulla possibilità di diagnosticare la forma della malattia associata al gene Presenilina 1, con un semplice test del DNA.
Circa il 75 per cento dei casi di Alzheimer sono classificati come sporadici, ovvero non colpiscono altri familiari del paziente e l’origine di questi casi non è ancora nota. Il restante 25 per cento dei casi di Alzheimer ricorre all'interno della famiglia e ha quindi una più evidente componente genetica. In una elevata percentuale di queste forme familiari, soprattutto in quelle caratterizzate da età precoce di insorgenza e rapida evoluzione, sono state identificate mutazioni a carico dei geni codificanti per la Presenilina 1 e Presenilina 2 e per il precursore della beta-amiloide.
Il primo studio, condotto dalla Washington University School of Medicin e pubblicato sulla celebre rivista NEJM, sostiene che nella forma di Alzheimer autosomica dominante esista la possibilità di determinare precocemente la sequenza e la portata dei cambiamenti patologici che culmineranno poi in malattia sintomatica.
Lo studio prospettico ha analizzato i dati di 128 partecipanti, figli di genitori affetti da Alzheimer, che sono stati sottoposti a valutazioni cliniche e cognitive, a diagnostica di imaging e all’esame del liquido cerebrospinale. Utilizzando l’età della comparsa dei sintomi nei genitori il team ha calcolato l’età in cui i sintomi sarebbero stati attesi anche nei partecipanti.
Pare che le concentrazioni di beta-amiloide nel liquido cerebrospinale inizino a diminuire circa 25 anni prima della comparsa dei sintomi. Grazie agli strumenti diagnostici è possibile osservare i principali cambiamenti fisiopatologici del beta amiloide, della proteina tau e dell’ipermetabolismo cerebrale tra i 10 e i 15 anni prima della comparsa della sintomatologia. Secondo il team medico dunque la malattia di Alzheimer in forma autosomica dominante è associata a una serie di alterazioni fisiopatologiche e biochimiche facilmente monitorabili.
Il secondo studio, pubblicato su The Lancet, si è invece concentrato unicamente sulla forma di Alzheimer dovuta alla mutazione del gene Presenilina 1 (PSEN 1), che generalmente causa la comparsa della malattia intorno ai 45 anni.
I ricercatori hanno coinvolto 44 pazienti del Colombian Alzheimer's Prevention Initiative Registry, con un'età compresa tra i 18 e i 26 anni, di cui 20 presentavano la mutazione sul gene PSEN 1.
Tutti i pazienti sono stati sottoposti ad una serie di risonanze magnetiche, analisi del sangue e del liquido cefalorachidiano (denominato anche liquor, liquido cerebrospinale o liquido rachido-spinale). Lo studio ha confermato che i soggetti con la mutazione presentano un'attività elettrica maggiore nell'ippocampo (un'area deputata alla memoria) e nel paraippocampo, hanno inoltre un minor volume della materia grigia in altre zone del cervello. Dall'analisi del liquido cefalorachidiano si è inoltre scoperto che i pazienti con la mutazione genetica presentano anche alti livelli di proteina betaamiloide (A-beta), responsabile della morte dei neuroni. Lo studio conferma dunque che la mutazione del gene PSEN 1 è responsabile di una forma precoce di Alzheimer, che può essere però diagnosticata con un test del DNA.
Sempre più spesso si parla di diagnosi precoce per la malattia di Alzheimer, ma ad oggi non esistono terapie risolutive. Visti i rapidi progressi della scienza è possibile che diagnosticare con largo anticipo la patologia possa essere utile per rallentare la progressione della malattia stessa. Per ora si tratterebbe solo di una pesante consapevolezza con la quale convivere.