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Uno studio americano evidenzia la necessità di opzioni terapeutiche con un miglior profilo rischio-beneficio in questa popolazione di malati

Qual è l’impatto sul paziente anziano di una neoplasia considerata rara e dalla prognosi infausta? Si tratta di un quesito al quale il mondo medico non in tutti i casi riesce a fornire una riposta univoca e che, per questo, merita un adeguato grado di approfondimento. Un buon tentativo di rispondere a questa domanda è quello descritto da un team di medici e ricercatori statunitensi che, sulla rivista Clinical Therapeutics, ha pubblicato i risultati di uno studio focalizzato sulla leucemia mieloide acuta (LMA).

All’interno del gruppo delle leucemie, la LMA costituisce una delle forme più conosciute, tanto da essere seconda solo alla leucemia linfatica cronica, con la quale condivide la presentazione clinica: l’anemia conduce a stati di astenia (riduzione delle energie con sensazione di estrema spossatezza) e dispnea (sensazione di difficoltà nel respirare), mentre la carenza di piastrine è causa di sanguinamenti, petecchie ed epitassi. Questa rara neoplasia del midollo osseo è caratterizzata dall’espansione clonale dei cosiddetti blasti, cellule progenitrici che in condizioni normali si sviluppano in globuli rossi, globuli bianchi (tranne i linfociti) e piastrine. Tuttavia, nel momento in cui i blasti subiscono una trasformazione neoplastica, prende corpo la LMA, che affligge soprattutto persone anziane, tanto che l’età media alla diagnosi è di circa 68 anni. Nel soggetto anziano la prognosi risulta peggiore, con una stima del tasso di sopravvivenza a 5 anni che si attesta intorno al 6,7% nei pazienti di età superiore ai 65 anni, rispetto al 45,2% nei pazienti più giovani.

Se la diagnosi di LMA inizia con gli esami del sangue, come l’emocromo, e prosegue con un prelievo di midollo osseo, a partire da cui si effettua il conteggio delle cellule leucemiche, il trattamento è basato principalmente su una chemioterapia aggressiva (generalmente il regime 7+3, composto da 7 giorni di infusione continua di citosina-arabinoside e 3 giorni di antraciclina), seguito da un regime di consolidamento post-remissione. Tuttavia, la chemioterapia intensiva presenta un elevato grado di tossicità, direttamente correlato a una significativa morbilità, specialmente tra i pazienti più anziani e tra quelli con alterazioni delle funzioni renali. Ciò si traduce in un aumento della frequenza delle ospedalizzazioni oltre che in un allungamento dei tempi di ricovero e in un costante bisogno di assistenza. Per questo motivo, non sono pochi gli anziani malati di LMA che preferiscono evitare la chemioterapia. Inoltre, esistono molti medici che, nel calcolo dell’equazione rischio-beneficio del trattamento, fanno rientrare una serie di fattori quali l'età dei pazienti, la presenza di comorbilità significative, la presenza di precedenti disturbi ematologici, l'identificazione di anomalie citogenetiche sfavorevoli o il profilo mutazionale della malattia. Pertanto, è inevitabile che la decisione di trattare i pazienti molto anziani con la chemioterapia intensiva non metta d’accordo tutti i dottori.

Nel loro lavoro, i ricercatori americani hanno analizzato i dati di 3700 persone con LMA (1979 dei quali sono stati sottoposti a trattamento chemioterapico) di età compresa tra 65 e 75 anni, estratti dal database dei Centers for Medicare & Medicaid Services al fine di ricostruire il quadro delle terapie, il numero e la durata dei ricoveri ospedalieri e le condizioni di salute dei pazienti anziani trattati con chemioterapia in confronto a quelli che non hanno ricevuto il trattamento.

L’analisi ha rivelato che i tassi di ospedalizzazione si sono progressivamente ridotti con l’aumento della sopravvivenza dei pazienti, anche se sono risultati più alti nei soggetti trattati. Sebbene la chemioterapia intensiva si concretizzi in un iniziale aumento dei tassi di ospedalizzazione, nel tempo le differenze tra trattati e non trattati si attenuano quanto a numero e durata dei ricoveri, ma diventano più evidenti in fatto di sopravvivenza.

L’età avanzata e la presenza di comorbilità sono risultate associate a una minor probabilità di ricevere il trattamento, ma la probabilità di superare i primi 6 e 12 mesi da parte dei pazienti trattati è risultata, rispettivamente, circa 3 e 2 volte maggiore rispetto ai non trattati. Tale differenza si osserva specialmente nei pazienti che sono stati sottoposti a trapianto di cellule staminali ematopoietiche dopo la chemioterapia, nei quali la sopravvivenza si allunga molto di più rispetto a quelli non trattati. Dei 155 soggetti sottoposti a trapianto, 148 avevano affrontato una precedente chemioterapia: i pazienti trapiantati avevano una probabilità di sopravvivenza a 6 e 12 mesi rispettivamente 7 e 4 volte più alta dei non trapiantati.

Il dato più interessante emerso dall'indagine è che la probabilità di sopravvivenza a 12 mesi dei pazienti che hanno effettuato la chemioterapia prima del trapianto di cellule staminali ematopoietiche è quasi il doppio di quella dei pazienti che hanno eseguito solo la chemioterapia, e risulta essere quasi tre volte superiore a quella dei pazienti che non hanno effettuato nemmeno la chemioterapia.

Il trattamento chemioterapico del paziente anziano affetto da LMA rimane un argomento di estrema complessità, e l’età del malato è solo una delle variabili prognostiche che un buon medico deve considerare nell'atto di decidere se sia preferibile o meno sottoporre il paziente a tale trattamento. Studi come quello appena descritto ribadiscono la profonda necessità di mettere a punto opzioni terapeutiche innovative e associate a minori effetti collaterali, soprattutto per neoplasie che, come la leucemia mieloide acuta, insorgono prevalentemente in soggetti anziani.

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