Un recente studio ha fatto il punto sulle conoscenze attualmente disponibili su questa rara forma di tumore
La pericolosità di certi tumori, come quelli che attaccano il pancreas o il fegato, è ormai riconosciuta dalla maggior parte delle persone e l’interesse rivolto a patologie tra cui la pancreatite o l’epatite - che dei rispettivi tumori possono essere prodromiche - ha contribuito a spiegare l’importanza di questi organi e a fare maggior chiarezza sulle neoplasie che li riguardano. Ma se l’oggetto d’indagine è il colangiocarcinoma (CCA) gli interrogativi si moltiplicano. Che tipo di tumore è? Quale organo colpisce? E quante possibilità di sopravvivenza offre?
Rispondere a tali domande è utile per fornire un inquadramento di questo tumore primitivo del fegato che, dopo l’epatocarcinoma, rappresenta la seconda forma tumorale epatica più diffusa. Sebbene considerato raro, il CCA è estremamente pericoloso e si manifesta a danno dei colangiociti, cioè quelle cellule che ricoprono i dotti biliari, i canali che dal fegato convogliano la bile nell’intestino. I dotti biliari rappresentano, dunque, l’architettura di base del circolo enteroepatico ed è per tale ragione che il CCA può essere classificato in tre gruppi a seconda della sede in cui insorge: CCA intraepatico, se coinvolge i dotti biliari di secondo ordine; CCA peri-iliare, se si colloca tra i dotti biliari di secondo ordine e l’impianto del dotto cistico; CCA distale, se si manifesta tra l’origine del dotto cistico e la papilla di Vater.
LA CHIAVE GENETICA
In un articolo pubblicato sulla rivista Nature Reviews Gastroenterology & Hepatology un gruppo di studiosi dei più rinomati poli di ricerca europei (tra cui figurano diversi istituti italiani) ha fatto il punto sulle conoscenze disponibili riguardo al colangiocarcinoma, così da fissare i punti di riferimento della rotta che la ricerca dei prossimi anni potrà seguire. La prima e più evidente boa di segnalazione è rappresentata dallo studio della genetica (e dell’epigenetica) per la comprensione dei meccanismi molecolari che determinano l’insorgenza di questo tumore. Sebbene tra i fattori di rischio del CCA figurino l’infiammazione cronica e la presenza di cisti del tratto biliare, negli anni i ricercatori hanno puntato la lente d’ingrandimento su analisi genomiche che possano essere d’aiuto per un’opera di stratificazione di questo tumore basata sulla prognosi. Nei pazienti con le forme più aggressive di CCA sono state riscontrate anomalie nei geni coinvolti in diverse vie di segnalazione cellulare. A queste sono collegate mutazioni in geni specifici, spesso associati a una forma tumorale o all’altra: alterazioni nei geni IDH, EPHA2, BAP1 e FGFR2 sono più frequenti nei CCA intra-epatici, mentre le fusioni nei geni PRKACA e PRKACB o le mutazioni a danno di ELF3 e ARID1B56 riguardano più spesso le forme extraepatiche. Un ruolo importante è giocato anche dagli studi di epigenetica, che riguardano il modo in cui l’ambiente cellulare può influenzare l’espressione dei geni all’interno di una cellula. Ognuna di queste distinzioni, infatti, è utile per indagare gli effetti di potenziali trattamenti mirati contro specifiche forme di CCA.
OPZIONI TERAPEUTICHE
Il problema principale del colangiocarcinoma è la difficoltà di individuarlo precocemente, con un’ovvia ricaduta sulla prognosi: i pazienti con un maggiore carico di mutazioni sono quelli in cui la prognosi è più sfavorevole. Tuttavia, lo studio dei pattern genetici serve alla creazione di modelli sperimentali per nuove e promettenti opzioni terapeutiche. Farmaci inibitori di IDH1 e IDH2 sono al momento in studio all’intento di trial clinici su pazienti con forme intraepatiche di CCA. Lo studio clinico di Fase III ClarIDHy, ad esempio, ha arruolato pazienti con la mutazione di IDH1 ai quali è stato somministrato il farmaco sperimentale AG120. La conclusione dello studio è prevista per la metà del 2021. Ivosidenib è un altro inibitore di IDH1 (già approvato per il trattamento della leucemia mieloide acuta) che sembra aver dato buoni risultati in termini di sopravvivenza libera da malattia (PFS). Anche i farmaci che prendono a bersaglio il recettore FGFR2 sono allo studio: un importante trial clinico di Fase III ha preso il via un anno fa con l’obiettivo di arruolare più di 380 pazienti con CCA che verranno sottoposti a trattamento con infigratinib. Altre molecole mirate sono in fase di valutazione, tra cui anche farmaci inibitori dei checkpoint immunitari come pembrolizumab, nella speranza che le possibilità terapeutiche per i pazienti con CCA possano ampliarsi sempre più con gli anni.
RISCHIO COVID-19
Una ricerca che si avvalga dei modelli cellulari più avanzati, quali gli organoidi, può diventare essenziale anche per comprendere l’impatto di un virus come il SARS-CoV-2 sui colangiociti. Sulla rivista Protein Cell è stata pubblicata un’interessante comunicazione con la quale un team di ricercatori rimarca il prodursi di danni epatici da parte del nuovo Coronavirus. Essi hanno notato che il virus SARS-CoV-2, attraverso la stimolazione di specifici fattori (CD40, CARD8 e STK4) induce la morte dei colangiociti, interferendo così con il trasporto della bile e danneggiando le funzioni epatiche. Sulla base di queste osservazioni è per ora prematuro affermare che il virus SARS-CoV-2 sia un fattore di rischio per il colangiocarcinoma, ma è quanto mai necessario supportare le ricerche che hanno per protagonisti i tumori rari, in modo tale da fare chiarezza sulla loro genesi e sviluppare forme di trattamento mirate.