Il prof. Luca Vago (Milano): “Contro questo tumore ematologico l’obiettivo è essere efficaci sin dalla prima linea terapeutica, per cercare di evitare che possa ricomparire”
Non è un’associazione immediata ma da un punto di vista istologico il sangue è considerato un tessuto e, come tale, risulta formato da globuli rossi, linfociti e piastrine, che svolgono ben precise funzioni per la sopravvivenza dell’organismo e si formano nel midollo osseo, a partire dalle cosiddette cellule staminali progenitrici (mieloidi o linfoidi). Quando una di tali cellule subisce una trasformazione maligna, va incontro a una spinta proliferativa, che la fa crescere in maniera incontrollata, e satura il midollo osseo di elementi neoplastici, riversando nel sangue le cellule ematiche immature. È l’inizio della leucemia che, quando riguarda una cellula progenitrice mieloide, prende il nome di leucemia mieloide.
Il profilo genetico della patologia
“La leucemia mieloide acuta (LMA) è un tumore aggressivo delle cellule del sangue relativamente raro, poiché rappresenta il 3-4% di tutti i tumori”, afferma Luca Vago, professore presso l’Università Vita-Salute San Raffaele ed ematologo presso l’Ospedale San Raffaele di Milano. “La malattia insorge principalmente negli individui intorno ai 70 anni, con sintomi come il sanguinamento, l’astenia e la dispnea da sforzo, e necessita di trattamenti piuttosto intensivi. Pertanto, la maggiore difficoltà per gli ematologi consiste nel trattare questa forma di leucemia in un paziente fragile, che può non essere in condizioni di ricevere le necessarie terapie robuste e impegnative”.
Il ventaglio di sintomi e i risultati dell’emocromo costituiscono il primo valido indizio della presenza di una leucemia mieloide acuta: la gran parte dei pazienti versa in uno stato di pancitopenia [carenza di globuli rossi e bianchi e di piastrine, N.d.R.] dovuto al fatto che le cellule immature nel midollo osseo rubano spazio ai progenitori sani. La successiva conferma diagnostica giunge dall’esame del midollo osseo, indispensabile anche per stabilire il profilo della malattia. “Dopo il sequenziamento del genoma umano, la prima neoplasia a essere studiata dal punto di vista del profilo delle sue mutazioni è stata proprio la leucemia mieloide acuta”, precisa Vago. “Per questo, oggi disponiamo di pannelli di analisi di oltre 40 geni associati alla LMA, grazie a cui possiamo comprendere nel dettaglio i meccanismi di origine della patologia. Infatti, la leucemia mieloide acuta mostra una prognosi ben diversa da un paziente all’altro. Dobbiamo disporre della sua ‘carta d’identità’ completa per distinguere coloro che hanno possibilità di guarire con il trattamento standard da coloro che necessitano di terapie mirate. Le informazioni sui geni ci dicono se la malattia è tra quelle più aggressive e, in alcuni casi, ci offrono dei bersagli terapeutici”.
Alcune mutazioni, infatti, hanno un forte valore prognostico, come quelle che interessano i geni CEBPA, MLL e RUNX1, che interferiscono con il processo di trascrizione, o come quelle a danno dei geni NPM1, CEBPA, MLL, RAS, WT1, RUNX1 e FLT3, che interferiscono con il ciclo cellulare e il processo di apoptosi. Ad esempio, le cellule leucemiche con una mutazione in FLT3 crescono più in fretta. “Oggi, però, abbiamo a disposizione farmaci che inibiscono la proteina FLT3 per cui, qualora l’analisi genetica porti alla luce questa mutazione, oltre ai trattamenti standard per la LMA diamo ai pazienti anche gli inibitori di FLT3. In tal modo, togliamo alla malattia il suo vantaggio”, chiarisce l’esperto milanese. “La pericolosità della LMA è data dal fatto che le cellule leucemiche sono difficili da eliminare definitivamente: l’obiettivo, perciò, è essere efficaci sin dalla prima linea terapeutica, evitando che possano ricomparire”.
Il rischio di recidiva esiste anche dopo il trapianto di midollo
In oltre il 70% dei pazienti si osserva una remissione clinica dopo la prima linea di trattamento poiché, di norma, la LMA risponde bene alla chemioterapia di induzione. Purtroppo, però, in circa il 40% dei casi la malattia tende a ripresentarsi in forma più aggressiva. “In questo contesto si colloca il ricorso al trapianto di midollo osseo, che ha la funzione di intensificare il trattamento dopo che la chemioterapia ha ridotto ai minimi termini la leucemia”, spiega Vago. “Prima la chemioterapia ad elevate dosi bombarda a tappeto le cellule leucemiche residue e poi una nuova fonte di cellule staminali viene infusa per ripopolare il midollo osseo. Inoltre, con il trapianto non solo si sostituisce il midollo del malato con quello di un donatore sano, ma gli si trasferisce anche un sistema per riconoscere ed eliminare le cellule leucemiche, che faccia da barriera contro il ripresentarsi della LMA”.
Ultimo in ordine di tempo a dichiarare di esser stato colpito dalla leucemia mieloide acuta era stato l’allenatore del Bologna, Sinisa Mihajlovic, che qualche settimana fa ha confermato il riscontro dei campanelli d’allarme di una recidiva. Mihajlovic ha affermato di essere pronto a seguire il percorso terapeutico suggerito dai clinici ma, nel frattempo, sulla stampa è stato menzionato anche un possibile trattamento a base di cellule CAR-T, un approccio che, tuttavia, è attualmente approvato solo per alcune forme recidivanti di leucemia linfoblastica acuta (LLA). Su questo tema, quindi, appare necessario adottare un po’ di cautela e addurre alcune precisazioni. “Le CAR-T colpiscono ed eliminano in maniera mirata le cellule su cui individuano uno specifico bersaglio”, chiarisce Vago. “Nel caso della LLA, tale bersaglio è condiviso da cellule linfoidi sia sane che malate, ma il trattamento non inficia la sopravvivenza dei pazienti. Per quanto riguarda la leucemia mieloide acuta, invece, l’uso delle CAR-T, ad oggi, costituirebbe un problema, perché eliminando le cellule mieloidi sane si produrrebbe una tossicità difficilmente tollerabile dall’organismo”.
Se la malattia manda segnali di ricomparsa anche dopo il trapianto - come sembra sia accaduto nel caso di Mihajlovic - la strategia attualmente adottata è quella di potenziare il sistema immunitario con infusioni aggiuntive di linfociti T ottenuti da donatore. “In alcuni pazienti ciò è sufficiente, in altri purtroppo no, perché le cellule leucemiche, già resistenti alle chemioterapie, trovano il modo di ‘difendersi’ anche dal sistema immunitario del donatore”, conclude Vago. “Esse celano gli antigeni utili ad eliminarle, diventando ‘invisibili’ ai linfociti T e riprendendo a crescere. Fortunatamente, si stanno conducendo studi clinici per sbloccare i sistemi che le nascondono o per produrre nuove cellule immunitarie potenziate, in grado di riconoscere quelle tumorali ed attaccarle”.
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