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I pazienti con questa mutazione sono più a rischio di mortalità, secondo uno studio americano. Di diverso avviso altri ricercatori: la positività non è predittiva

Sono pochi i casi in cui il carcinoma papillare della tiroide è aggressivo e ad alto rischio di mortalità: ancora oggi, però, non è facile distinguerli dagli altri, la cui sopravvivenza è oltre il 95%.
Potrebbe essere BRAF, gene che codifica per una tirosin-chinasi, un potenziale fattore predittivo della prognosi, ma manca la conferma da studi scientifici che, finora, hanno presentato risultati poco chiari e in contrapposizione. Un dibattito caldo, tanto da essere finito qualche mese fa sulle pagine di Jama - Journal of the American Medical Association - una delle riviste scientifiche più prestigiose.


Il carcinoma papillare tiroideo rappresenta il 90% delle neoplasie che colpiscono la tiroide, di per sè poco frequenti nella popolazione, e generalmente origina da un nodulo sulla ghiandola. Di fronte a un’aumentata diffusione delle malattie tiroidee, nella maggior parte dei casi benigni, è diventato molto importante svilluppare test che consentano di riconoscere tempestivamente i casi, invece, più aggressivi. I difetti genetici più comuni riguardano il gene RET, le mutazioni di RAS e RAF. Da studi recenti, oggi sappiamo che nel 45% dei tumori papillari della tiroide è presente una mutazione del gene BRAF (BRAF-V600E), che codifica per una tirosin-chinasi. Può l’individuazione di questo difetto genetico predire uno sviluppo più aggressivo della malattia?

Ha provato a rispondere il team di ricerca della Johns Hopkins University di Baltimora, con uno studio multicentrico retrospettivo che ha esaminato 1.848 individui con carcinoma papillare tiroide, di età compresa tra i 34 e i 58 anni. Dai risultati collezionati in tre decenni, i ricercatori hanno osservato che l’80,4% dei pazienti per cui la malattia è risultata mortale (pochi, attorno al 3% di tutti i casi esaminati) era positivo per la mutazione in BRAF. Il rischio di mortalità, inoltre, si è mantenuto più alto aggiustando statisticamente i dati in base a età, sesso e centro medico, ma non è successivamente risultato indipendente dalle caratteristiche del tumore, come grado e localizzazione delle metastasi.

“L’analisi solleva due importanti questioni. – si legge nell’editoriale di commento di Anne Coppola e Susan Mandel della University of Pennsylvania - Innanzitutto i ricercatori suggeriscono che la mutazione BRAF V600E sia associata a caratteristiche più aggressive di questa forma tumorale. In questo modo viene dato un importante spunto per le attuali sperimentazioni cliniche che usano gli inibitori di BRAF. Questi risultati suggeriscono però che un test per BRAF non aggiunge alcun valore predittivo alla prognosi del carcinoma papillare tiroideo, oltre a quento può essere definito clinicamente con la stadiazione del tumore e le valutazioni istopatologiche fatte durante e dopo l’intervento chirurgico. E’ da notare che la mortalità è stata valutata su un numero esiguo di decessi, solo 56, di cui 45 sono risultati positivi per BRAF. Questo limita la possibilità di un’analisi stratificata per identificare i gruppi target per gli studi di ricerca.”

Secondo Mingzhao Xing e colleghi, che hanno condotto lo studio, la presenza di questa mutazione è fortemente associata a un comportamento più aggressivo del tumore e, di conseguenza, non può che sfociare in un tasso di mortalità più alto. “Alcuni studi non hanno dimostrato questa associazione, ma altri lo hanno fatto come spiegato nella nostra meta-analisi. Sono necessari ulteriori sforzi per stabilire come utilizzare il test di BRAF nel definire la prognosi dei pazienti.”

Di diverso avviso, invece, il gruppo di ricercatori dell’Arcispedale S. Maria Nuova-IRCCS di Reggio Emilia secondo cui non si può concludere che questa mutazione genetica sia associata a forme tumorali mortali. “In genere, il carcinoma papillare tiroideo non è aggressivo, con bassa probabilità di metastasi e morte. Questo rappresenta una grande limitazione per studi prognostici. Gli esempi descritti dallo studio statunitense suggeriscono la necessità di ulteriori studi per un uso appropriato di BRAF come marcatore clinico. Tuttavia riteniamo che sia il momento di andare oltre e cercare nuovi determinanti molecolari più predittivi della prognosi dei pazienti.”

Quest’ultimo è, forse, l’aspetto cruciale della discussione: che sia BRAF o un altro marcatore molecolare, oggi sta diventando necessario definire un test affidabile per discriminare i casi più aggressivi di questa neoplasia. Seppur pochi, questi non beneficiano dalle terapie attualmente in uso, ma possono essere inclusi in sperimentazioni di nuove e mirate terapie attualmente in corso.

 

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