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L’anticorpo monoclonale è stato sviluppato da GSK ed approvato da FDA e Ema

Fino a qualche anno fa per le persone che si scoprivano affette da leucemia linfatica cronica c’era un solo trattamento farmacologico, pochissimi arrivavano al trapianto, sia per i limiti di età sia per le l’indebolimento dovuto alla chemioterapia. I pazienti erano per lo più persone che, compiuti i 65 – 70 anni, venivano considerate nell’ultima fase della propria vita. “Anche per questo probabilmente di leucemia linfatica cronica si è sempre parlato pochissimo. Le cose ora sono destinate a cambiare. La maggiore sopravvivenza della popolazione, in particolar modo in Italia paese particolarmente longevo, e dunque la maggiore prevalenza della malattia unitamente alla sempre maggiore disponibilità di terapie a disposizione rende necessario parlarne ed anche indirizzare i pazienti verso i centri competenti anche per evitare trattamenti inappropriati”. A spiegarlo è stato il prof. Robin Foà, direttore di Ematologia all’Università Sapienza di Roma nel corso di un appuntamento organizzato da Glaxo proprio per parlare di questa malattia cronica per la quale recentemente la casa farmaceutica ha avuto l’approvazione, sia negli Usa che in Europa, di un nuovo farmaco, l’anticorpo monoclonale ofatumumab prodotto attraverso le più moderne biotecnologie.

Il farmaco per ora è stato approvato con indicazione terapeutica solo per i casi di pazienti refrattari a fludarabina e alemtuzumab o per quelli dove ad essere colpiti sono in particolare i linfonodi. A cambiare è dunque soprattutto il panorama delle possibili terapie per questi casi particolarmente difficili.

“Le conoscenze che abbiamo oggi sulla malattia – ha spiegato il Prof. Antonio Cuneo, direttore di Ematologia all’Università di Ferrara - sulla correlazione tra genotipo e fenotipo, le previsioni che possiamo fare sulla resistenza ai farmaci in base a queste informazioni e, al tempo stesso, la consapevolezza che se si vuole arrivare al trapianto occorre non indebolire troppo il pazienti ripetendo cicli di terapie, rendono più ampie ma al tempo stesso più difficili le scelte relative alle terapia. L’arrivo di questo nuovo farmaco ampia ulteriormente la complessità, ora sappiamo che se il paziente ha una tipologia di malattia che lo rende particolarmente predisposto a ‘fallire’ le terapie classiche dobbiamo essere pronti a riconoscere il caso  fin da subito e passare a questo nuovo farmaco che su questi casi più difficili si è dimostrato valido. E’ una sfida in più per gli ematologi, per fortuna il nostro paese ha una rete di ematologia molto preparata: bisogna però fare in modo che ai centri dotati delle migliori tecnologia, anche dal punto di vista dell’analisi genetica e molecolare, si rivolgano i pazienti con questa diagnosi, altrimenti si rischia proprio di impostare, fin dalla partenza, una terapia sbagliata per lo specifico caso. Di fronte alla leucemia linfatica cronica la personalizzazione della terapia in base alla tipizzazione del paziente è fondamentale, la presenza di diversi trattamenti approvati nell’ultimo periodonti dà molte armi contro la malattia”.    

Ofatumumab, in uno studio condotto su 154 pazienti con leucemia linfatica cronica che non avevano risposta al trattamento con fludarabina e alemtuzumab, oppure presentavano un diametro delle ghiandole linfatiche superiore a 5 centimetri ha evidenziato significativi tassi di risposta. Nei pazienti refrattari a entrambi i farmaci, il tasso di risposta è stato del 58 per cento. Sulla scorta di questi e altri dati il farmaco, approvato dalla FDA americana prima e dall’ente regolatorio europeo EMA poi, è oggi disponibile anche in Italia proprio per questa popolazione di pazienti refrattari a fludarabina e alemtuzumab.

“La leucemia linfatica cronica è caratterizzata dall’aumento progressivo dei linfociti B CD5+ nel midollo osseo e negli organi linfatici secondari come i linfonodi e la milza – ha spiegato  Foà - Spesso la malattia viene diagnosticata in individui del tutto asintomatici, mentre in altri casi sono presenti astenia, una leggera febbre e calo ponderale. Il medico può riscontrare, oltre all’incremento dei linfociti circolanti, ingrossamento dei linfonodi, del fegato e della milza: l’esame delle cellule del sangue periferico e del midollo consente di arrivare ad una diagnosi precisa e ad una diagnosi differenziale con patologie simili”.
A differenza di quanto avviene per altre forme di leucemia, nella leucemia linfatica cronica l’approccio di cura varia in base alle caratteristiche della malattia e del paziente. In molti casi, infatti, non viene aggredita subito e con ogni mezzo a disposizione, ma viene monitorata con attenzione e contrastata con la terapia solo in caso di progressione della malattia. Visto che al momento non è disponibile un trattamento “definitivo” in grado di vincere la patologia, le terapie puntano soprattutto a sfruttare le potenzialità offerte da diversi farmaci associabili tra loro.
“Attualmente il trattamento d’esordio prevede l’associazione tra fludarabina ed un vecchio chemioterapico alchilante, la ciclofosfamide  – ha spiegato il prof. Cuneo -  A questi si aggiunge un anticorpo monoclonale, il rituximab, diretto contro l’antigene CD20 espresso sui linfociti B normali e patologici, o, in alcuni casi, l’alemtuzumab (diretto contro l’antigene CD52 espresso ad alta densità sui linfociti circolanti B e T).
Il miglioramento delle strategie terapeutiche ha permesso di migliorare il numero, la qualità e la durata delle risposte ottenute dopo il trattamento iniziale, ma i pazienti tendono comunque a presentare una recidiva di malattia. La problematica più seria  è quella che riguarda i pazienti che hanno fallito il trattamento con fludarabina e alemtuzumab o che, resistenti a fludarabina, presentano la cosiddetta “bulky disease” (caratterizzata da uno spiccato aumento di volume delle ghiandole linfatiche ed eventualmente di fegato e milza) che non si gioverebbe di una terapia con alemtuzumab. E’ dunque più che mai importante la disponibilità di ofatumumab, anticorpo monoclonale che possiede caratteristiche diverse da rituximab, con il quale condivide il “target”, cioè il linfocito CD20. Uno studio di fase II, recentemente pubblicato, ha dimostrato in questo senso che ofatumumab è clinicamente superiore ai trattamenti precedentemente adottati proprio in questi pazienti di gestione particolarmente complessa”.
Ofatumumab si lega infatti ad un piccolo epitopo ad anello (che rappresenta il sito di legame dell’anticorpo) presente sulla molecola CD20 delle cellule B (particolare tipo di globuli bianchi) leucemiche e blocca la membrana cellulare. Questo sito di legame è diverso da quello di rituximab, l’altro anticorpo monoclonale attualmente disponibile che agisce sul CD20. Il particolare legame di ofatumumab è stato disegnato per indurre un’efficiente attivazione del sistema del complemento del paziente, un meccanismo che favorisce la rapida ed efficace distruzione o lisi delle cellule leucemiche, anche all’interno dei linfonodi.



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