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Nel 2005 è stata individuata la mutazione di JAK2 che ha portato allo sviluppo di inibitori non ancora disponibili in Italia. Ora si cerca il meccanismo primario che innesca la malattia

Alleviare i sintomi e migliorare la qualità della vita dei pazienti in attesa di scoprire il meccanismo primario che scatena la mielofibrosi. E’ questa la direzione percorsa della ricerca scientifica attuale sulla malattia rara, di cui si stimano solo 0.5-1.5 nuovi casi su 100.000 abitanti per anno in Italia, da quando è stato chiarito, solo in parte, il meccanismo genetico alla base della sua manifestazione.

Alla base della mielofibrosi ci sarebbero dei difetti genetici, di cui uno identificato nel 2005: la mutazione V617F del gene JAK-2, comune a oltre la metà dei pazienti, è responsabile della produzione di una proteina ad attività tirosin-chinasica che, quando anomala, induce le cellule del midollo osseo a proliferare in modo incontrollato. Le conseguenze di un meccanismo difettoso interessano per lo più l’attività dei globuli bianchi, ma anche di piastrine e globuli rossi, con conseguente anemia e ingrossamento della milza tipiche della malattia a cui si associa, in fase conclamata, una deposizione reattiva di tessuto connettivo fibroso nel midollo.

Negli ultimi anni a livello terapeutico è cambiato tutto. Prima del 2005 usavamo farmaci di ripiego, sviluppati per altre malattie, non c’erano studi e la malattia era considerata orfana. Con la scoperta dei meccanismi molecolari sono stati prodotti gli inibitori di JAK2, che funzionano bene per la remissione dei sintomi ma non debellano la malattia”, spiega Giovanni Barosi, Direttore e del Laboratorio di Epidemiologia Clinica e Centro per lo Studio della Mielofibrosi della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo. E’ la target therapy, quindi, la strategia oggi più promettente per la mielofibrosi: i farmaci sperimentati inibiscono in modo diretto l’iperattività di JAK2, interrompendo quindi la via di trasduzione del segnale che porta alla proliferazione incontrollata della malattia. Questa opzione terapeutica non è ancora disponibile in Italia, i pazienti con mielofibrosi possono accedervi solo con inclusione in protocolli di ricerca clinica. Nel nostro Paese i pazienti hanno a disposizione trattamenti ‘sintomatici’, cioè volti ad attutire le manifestazioni della malattia: l’anemia si cura con eritropoietina, androgeni e talidomide, se c’è una milza ingrossata si usano gli idrostatici e i se il paziente non risponde ai farmaci e la malattia è molto grave può essere candidato al trapianto con una sopravvivenza media del 50% a 5 anni.

La metà dei pazienti con mielofibrosi sviluppa, nel decorso della malattia, una forma di anemia che può essere più o meno grave. Il 20% dei casi diventa dipendente dalle trasfusioni, con un evidente peggioramento della qualità della vita. Una speranza per questi pazienti potrebbe arrivare dalla pomalidomide, un farmaco che regola il sistema immunitario, e che in recenti studi ha dimostrato di migliorare nel 30% dei pazienti un’anemia di qualsiasi gravità. Ora la molecola, nota per la sua efficacia per il mieloma multiplo, è stata testata anche in pazienti trasfusione-dipendenti in uno studio internazionale, randomizzato e in doppio cieco, che ha coinvolto oltre centri americani ed europei, di cui cinque italiani, e i cui risultati di efficacia sono stati presentati nel corso dell’inaugurazione della nuova sede AIPAMM lo scorso 26 aprile a Roma.

Che cosa ci si aspetta ora dai progressi della ricerca scientifica? “Di capire qual è il primo meccanismo che induce la malattia. Gli inibitori di JAK2 funzionano, ma non colpiscono il meccanismo principale e, infatti, con questo trattamento il paziente sta meglio, le dimensioni della milza si riducono ma la malattia non viene debellata. Nel frattempo stiamo investendo su nuovi farmaci che permettano un miglioramento della qualità della vita e un aumento della sopravvivenza.”

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