L’ageism è un fenomeno molto diffuso in oncologia e può limitare l’accesso dei pazienti over-70 alle terapie adeguate, con conseguenze sulla loro sopravvivenza
Ci sono malattie oncologiche che colpiscono soprattutto persone al di sopra dei 70 anni e che, con la terapia adeguata, possono essere curate o rese croniche regalando anni di vita in buone condizioni di salute. Questo è il progresso della medicina. Contro questo vi è l’arretratezza di un fenomeno chiamato ‘Ageism’, un fenomeno particolarmente diffuso in oncologia – anche se non limitato a questa – che tende ad escludere dalla più accurata diagnosi e della migliore terapie i pazienti over – 70. Ne parliamo con Valeria Santini, professore associato di ematologia presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Firenze, unica italiana nel comitato direttivo del progetto internazionale Life Beyond Limits.
Professoressa che cos’è l’ageism?
E’ l’equivalente del razzismo e sessismo: significa fare discriminazioni sulla base dell’età. E’ un problema profondo, radicato da molti anni. I pazienti oncologici più anziani sono pazienti fragili ma la loro valutazione non si basa solo sull’età anagrafica. Escludere a priori un paziente molto anziano dalle terapie è un errore di base.
Quali possono essere le cause di questo fenomeno?
Molti si concentrano solo sulla supposta fragilità dei pazienti: data per scontata, spesso impedisce una valutazione reale del singolo caso. C’è chi invoca al budget sanitario, giustificando il non trattamento di pazienti molto anziani con un ipotetico risparmio di costi.
La popolazione mondiale sta però invecchiando: oggi si sta superando il concetto di ageism?
Oggi c’è molta più consapevolezza sull’esistenza di questo fenomeno, anche grazie a campagne di sensibilizzazione sul tema. Un ruolo importante dovrebbero averlo i medici di famiglia: spesso accade che il paziente ultraottantenne sia scoraggiato dal fare ulteriori terapie proprio in questa prima visita e non viene nemmeno mandato dallo specialista. A torto, perchè molti di questi pazienti possono essere trattati con le terapie oggi a disposizione anche per i più giovani. Sta aumentando il numero dei pazienti ultraottantenni, ma purtroppo esistono ancora realtà ospedaliere che attuano una sorta di selezione all’ingresso.
Quindi tutti i pazienti possono accedere alle terapie, indipendentemente dall’età?
No. In alcuni casi scegliere di non fare la terapia è la scelta più appropriata. E’ necessaria una valutazione geriatrica che con strumenti oggettivi aiuti a capire se il paziente molto anziano potrà beneficiare da terapie, a volte aggressive, oppure no.
Quali sono i parametri che escludono le terapie?
Innanzitutto, le comorbilità: in pazienti con diabete avanzato, cardiomiopatia grave o insufficienza renale le terapie oncologiche possono comportare maggiori rischi. Non è da trascurare il declino cognitivo del paziente e la presenza della rete sociale, considerando anche se l’anziano vive da solo oppure ha famigliari o una badante che possa aiutarlo a rispettare le visite e nell’aderenza alle terapie. Questi non sono aspetti da sottovalutare perchè possono influire significativamente sull’efficacia delle terapie stesse.
Qual è l’impatto dell’ageism sulle mielodisplasie?
Le mielodisplasie in Europa interessano prevalentemente pazienti con età media di 70 anni. Pochissimi sono inclusi negli studi clinici per capire l’efficacia delle terapie. Ultimamente le cose stanno cambiando e sono stati disegnati studi di ricerca anche per questa fascia di età.
Da quali esami o terapie vengono, in genere, esclusi i più anziani?
Nelle mielodisplasie un esempio è rappresentato dall’aspirato midollare, necessario per formulare una diagnosi. A volte non viene nemmeno suggerito. Però l’80% di questi pazienti è anemico e può nascondere un’anemia refrattaria semplice oppure una malattia progressiva in fase già avanzata: solo questo esame può aiutarci a distinguere i due casi e a decidere la rispettiva terapia. Se un paziente molto anziano non viene sottoposto a questo esame, anche se potrebbe tollerarlo, non si può decidere di fare terapia: eppure i dati clinici indicano che un paziente molto anziano e molto anemico può trarre grande beneficio dalla terapia con fattori di crescita eritroidi.
Quando l’età conta?
Solo il trapianto ha indicazione per l’età ma, comunque, si fa in pochissimi casi. Il trapianto non è biologicamente fattibile negli ottantenni e la mortalità è molto elevata. Ma è l’unica opzione curativa. Le altre terapie non possono essere scelte solo in base all’età.