Stampa

Direttore U.O. Pneumologia Ospedale G.B. Morgagni - L. Pierantoni  (Forlì)

Quando arriva una persona con un quadro che fa pensare alla IPF la prima cosa da fare è ascoltarla, cercare di capire, dalle parole che usa nel raccontare quando sono comparsi i primi problemi e cosa sta vivendo, quali sono i sintomi e da lì risalire alle cause. Col passare del tempo preferisco lasciare sempre maggiore spazio ai loro racconti piuttosto che eseguire subito esami invasivi. Nella fase diagnostica l’ausilio della tecnologia, dalla TAC alla biopsia, arriva dopo. Un approccio che richiama la medicina narrativa in questa malattia è fondamentale, raccogliere la loro storia di vita ci aiuta a  stabilire un buon rapporto con il paziente, a fare la diagnosi ma anche a capire meglio questa malattia. Il clinico è anche un ricercatore, non si possono pensare le due cose come nettamente separate. Ascoltandoli e visitandoli ogni giorno imparo molto da questi pazienti, non solo sulla malattia ma anche dal punto di vista umano”. Così il prof. Venerino Poletti Direttore U.O. Pneumologia Ospedale G.B. Morgagni - L. Pierantoni,  spiega quale dovrebbe essere l’approccio giusto al paziente IPF.


Professore, qual è la prima richiesta dei pazienti?
In primo luogo è quella di capire che cosa hanno. In passato venivano spesso con la preoccupazione di avere un tumore e la speranza di escluderlo, oggi vanno sul web e sono molto più informati, spesso quando arrivano qui hanno già letto qualche cosa sulla IPF e sanno che cosa comporta la malattia. Quello che cercano è un’ancora a cui aggrapparsi, una speranza, infatti sono disponibilissimi anche a partecipare alle sperimentazioni.

Qual è la reazione alla diagnosi e il comportamento dei pazienti in seguito?
Le reazioni sono le più varie, perché ognuno è diverso, e questo vale per chiunque abbia una malattia, ma in questo caso dipende anche da altri fattori. A molti di loro oggi possiamo offrire la speranza della terapia, alcuni hanno davanti anche la meta del trapianto, per altri non possiamo fare nulla di tutto questo ma solo intervenire con delle terapie palliative. Queste diverse opzioni cambiano il modo di vivere la malattia, anche se molto poi dipende dal carattere e dal modo di affrontare le cose di ogni singola persona.      
Anche il fatto di avere una forma sporadica oppure familiare fa una grande differenza. Per un paziente che scopre di avere una forma familiare alla preoccupazione per se stesso si aggiunge quella che un figlio o un fratello possa ammalarsi, e purtroppo conosciamo abbastanza bene la forma familiare da non poterlo escludere. Conosco molti casi di famiglie in cui la malattia ha colpito molti membri, questi pazienti sono diversi dagli altri perché hanno già visto e vissuto la malattia da vicino. Poi ci sono anche i casi in cui i pazienti non vogliono avere la diagnosi definitiva, quelli che magari arrivano già molto compromessi e che comunque non potrebbero accedere al trapianto o alla terapia. Uno di questi pochi giorni fa mi ha detto “non importa, ho avuto una vita così tanto piena che non posso chiedere di più”. Sono cose che fanno riflettere molto.    

Superato lo scoglio della diagnosi quali altri problemi deve affrontare lo specialista?
Uno dei problemi maggiori al momento è la continuità terapeutica, cioè quei pazienti di cui non sappiamo più nulla e che non si presentano alle visite successive. Questo non vuol dire che interrompano le terapie, anzi, a me risulta che l’aderenza sia molto buona. Oggi da noi arrivano molti pazienti da fuori regione, anche da lontano, magari con il progredire della malattia non se la sentono di tornare, ma la regolarità dei controlli  è importante. Sappiamo che mantenendo un contatto costante tra il paziente e lo specialista l’interruzione della continuità terapeutica si può ridurre ed avere un progetto che comprenda dei servizi tra cui l’aiuto costante  di un infermiere al paziente possa aiutare nel tenere saldo questo legame.

Questo sito utilizza cookies per il suo funzionamento. Maggiori informazioni