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L’associazione, presieduta da Alessandro Segato, aderisce al progetto IPINET, con l’obiettivo di rafforzare il dialogo tra medici e pazienti

Firenze –  “Trent’anni fa un neonato affetto da immunodeficienza primitiva non aveva grandi speranze. Oggi grazie alla diagnosi precoce e alle nuove possibilità terapeutiche – spiega Alessandro Segato, presidente dell’associazione AIP Onlus (Associazione Immunodeficienze Primitive) – i pazienti diventano adulti e possono vivere una vita normale.”
Le immunodeficienze primitive sono un gruppo di più di 175 patologie nelle quali il sistema immunitario, che normalmente presidia la difesa dell’organismo anche attraverso la produzione di anticorpi (detti anche immunoglobuline), perdendo totalmente o parzialmente la sua funzionalità, espone l’individuo a infezioni  ripetute. Quando il sistema immunitario non funziona o è assente, anche una singola infezione, se grave, può rappresentare un rischio per la vita.

“La nostra associazione è nata 21 anni fa a Brescia – continua Segato – e oggi conta ben 9 gruppi locali che lavorano sul territorio. Quando il difetto del sistema immunitario è ereditario si parla di immunodeficienza primaria o primitiva. Noi ci occupiamo sia di immunodeficienze primitive che si manifestano già nei bambini, che di altre forme diagnosticabili nei pazienti adulti, come nel mio caso.”
“Sono infatti entrato a far parte dell’AIP – spiega ancora Segato – in seguito a una diagnosi di immunodeficienza comune variabile (IDCV), patologia fino a poche decine di anni fa completamente sconosciuta. Ho avuto il primo segnale a 27 anni, un linfonodo del collo ingrossato. In prima battuta è stata esclusa l’ipotesi di un tumore. Poi sono stato trattato con antibiotici, ma in generale la mia salute non era buona, infatti spesso ero soggetto a tosse e raffreddore. A 40 anni, in seguito a una broncopolmonite che ho curato senza successo per due mesi, mi è stata fatta  diagnosi di immunodeficienza. Nel 2009 ho avuto una polmonite molto grave e ho quindi iniziato a sottopormi alla terapia con immunoglobuline, grazie alla quale ho iniziato a stare meglio.”

Le immunodeficienze sono infatti patologie oggi curabili. Per le forme più gravi di malattia l’unica soluzione è rappresentata dal trapianto di midollo osseo, ma per le forme patologiche associate a una carenza anticorpale, il trattamento d’elezione è rappresentato da un apporto periodico di immunoglobuline noto anche come ‘terapia sostitutiva’.
Le immunoglobuline possono essere somministrate sia per via endovenosa che per via sottocutanea. Il trattamento endovenoso deve essere effettuato presso una struttura ospedaliera, ogni 3 o 4 settimane, sotto supervisione medico-infermieristica.

“Io personalmente effettuo la terapia sostitutiva per via sottocutanea – racconta Segato – in piena autonomia, una volta alla settimana guardando la tv nella tranquillità della mia casa. Questa possibilità terapeutica ha migliorato notevolmente la mia qualità di vita e quella di molti altri pazienti, permettendoci di evitare l’ospedale ogni 3 o 4 settimane. Naturalmente la terapia domiciliare non è adatta a tutti i pazienti, per potersi gestire è necessario un buon grado di autonomia e un impegno costante. La terapia deve essere infatti effettuata con estrema regolarità.”

La terapia sottocutanea rappresenta una delle innovazioni terapeutiche che permettono di migliorare sensibilmente la vita dei pazienti affetti da queste patologie, che nella sola Toscana sono 300. Inoltre, sono in arrivo nuove opportunità terapeutiche per via sottocutanea che potranno ancora di più andare incontro alle esigenze del singolo paziente garantendo una migliore aderenza alla regolarità del trattamento.
“Secondo i dati più recenti, soprattutto negli adulti, le immunodeficienze sono ancora nettamente sottodiagnosticate – spiega Segato – e diagnosticate con grande ritardo. Parliamo anche di 7 anni di ritardo diagnostico, dal momento in cui il paziente si presenta al medico di base, al momento della diagnosi e dell’avvio della terapia sostitutiva.

In Italia i centri di riferimento per le immunodeficienze sono all’avanguardia, ma rimane difficile il passaggio dal medico di base all’immunologo clinico. Troppo spesso i medici di base non conoscono la patologia, per questo come associazione ci impegniamo a diffonderne la conoscenza.”
“E’ bene ricordare che il ritardo diagnostico incide pesantemente anche sui costi a carico del SSN: un paziente che non ha diagnosi non può ricevere la corretta terapia. Quindi è perennemente malato e spesso segue terapie inutili, quando non dannose, con conseguente danno psicologico e progressiva compromissione di organi anche grave e con esiti fatali, come nel caso di serio danno bronchiale per infezioni ripetute.”

“E’ fondamentale che la patologia venga diagnosticata subito e che il paziente abbia a disposizione tutti gli strumenti terapeutici perché gli sia garantita una migliore qualità della vita. Per questo cerchiamo anche di lavorare in sinergia con i clinici, per far testimoniare le reazioni del paziente dopo la diagnosi, quali le aspettative di vita  e le speranze. Deve certamente essere il clinico a scegliere la giusta terapia per ogni singolo paziente, ma è giusto che i medici ascoltino anche la voce dei pazienti. Stiamo quindi collaborando con la rete IPINET (Italian Primary Immunodeficiences Network), per migliorare anche questo aspetto.”
“Infine – conclude Segato – come associazione siamo impegnati in un progetto molto importante. Vorremmo realizzare un censimento, regione per regione, dei centri che effettivamente hanno in carico pazienti con immunodeficienze. Vorremmo creare una rete capillare per capire i bisogni e le necessità di tutti i pazienti italiani e conseguentemente migliorarne la qualità di vita.”

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