Il prof. Michele D’Alto (Napoli): “I pazienti necessitano di un’attenzione continua. Non possono essere abbandonati al proprio destino, nemmeno durante l’attuale pandemia”
Il 5 maggio, in tutto il mondo, si celebra la Giornata dedicata all’ipertensione arteriosa polmonare (IAP), una malattia rara che colpisce 50-60 individui su un milione: si calcola, pertanto, che in Italia vi siano circa 3-4.000 pazienti affetti da questa patologia. La IAP è caratterizzata da un restringimento patologico delle arteriole polmonari che porta alla dilatazione del ventricolo destro del cuore e a scompenso cardiaco. “Non si sa esattamente perché si verifichi questa alterazione del circolo polmonare”, spiega il prof. Michele D’Alto, responsabile del Centro per la diagnosi e cura dell’ipertensione polmonare dell’Ospedale Monaldi di Napoli. “Nel 6-8% dei casi, la IAP è ereditaria. Tuttavia, la presenza di una caratteristica alterazione genetica non significa che si svilupperà necessariamente la malattia: è il caso, questo, dei cosiddetti portatori sani (gene carrier)”. Il prof. D’Alto è un cardiologo esperto di fama internazionale, autore di oltre 150 pubblicazioni scientifiche e membro delle più importanti società scientifiche del settore (tra cui American College of Cardiology, European Heart Association e International Society of Heart and Lung Transplantation). In qualità di "principal investigator", ha partecipato a decine di studi clinici sull'ipertensione polmonare.
Professor D’Alto, quali persone sono più suscettibili all’ipertensione arteriosa polmonare?
La malattia colpisce più spesso le donne e, in genere, insorge tra i 30 e i 60 anni. Tuttavia, anche fasce di età estreme, cioè i bambini e gli anziani, possono essere affette da questa condizione: in tali casi, il decorso può essere più grave e le terapie possono risultare meno efficaci.
Quali sono i sintomi principali?
I sintomi sono subdoli, poco specifici e comuni a quelli di tante altre malattie di interesse cardiologico o pneumologico, come affanno, stanchezza e sensazione di ‘fame d’aria’. Tutto ciò, ovviamente, rende difficile la diagnosi perché si pensa, tendenzialmente, a patologie più frequenti, come l’asma bronchiale o lo scompenso cardiaco. In alcuni casi, soprattutto nelle donne giovani, i sintomi vengono spesso collegati a depressione. Nelle fasi più avanzate della malattia si possono verificare anche gonfiore alle gambe (edemi declivi) o svenimenti (sincope).
Come si effettua la diagnosi di IAP?
È stato riportato che, tra la comparsa dei primi sintomi e la diagnosi definitiva di ipertensione arteriosa polmonare, intercorrono, in media, due anni. Questo è un ritardo inaccettabile, perché la malattia intanto progredisce e diventa via via più aggressiva. La diagnosi deve essere effettuata in un centro specializzato, ossia di terzo livello: in Italia non ce ne sono molti, non più di uno per regione. La diagnosi prevede una serie di esami quali l’ecocardiogramma, le prove spirometriche, la TAC torace ad alta risoluzione, l’angio-TAC del torace, la scintigrafia polmonare ventilo-perfusionale ed il cateterismo cardiaco (eventualmente integrato dal test di vasoreattività). Un centro esperto in IAP ha un team multi-specialistico dedicato, composto da cardiologi, pneumologi, internisti, reumatologi, radiologi, chirurghi, psicologi e infermieri con specifica esperienza della malattia.
Quali sono le principali criticità nella gestione della malattia?
Innanzitutto, trattandosi di una patologia rara e grave, la diagnosi deve essere effettuata con grande solerzia, per poter mettere immediatamente a punto la strategia terapeutica migliore. Il ritardo diagnostico è deleterio e può peggiorare notevolmente la prognosi. Per questo è indispensabile creare una rete di collaborazione, con un modello “hub-and-spokes”, che permetta ai centri meno esperti di convogliare rapidamente il paziente ai centri di terzo livello. In Campania, grazie alla collaborazione spontanea tra i centri e alla recente approvazione di un Percorso Diagnostico Terapeutico e Assistenziale (PDTA) sull’ipertensione polmonare, questo modello si realizza in maniera pressoché ottimale.
Quali sono le attuali strategie terapeutiche?
Vent’anni fa, la sopravvivenza media dalla diagnosi era di uno-due anni; attualmente, la sopravvivenza a un anno è del 93%, e a 5 anni del 75%. Una volta effettuata la diagnosi, bisogna capire quanto sia avanzata la malattia (in gergo si parla di “stratificazione del rischio”). In relazione a questa valutazione, che va periodicamente ripetuta, verrà prescritto un trattamento più o meno aggressivo. La terapia, quindi, deve essere precoce, aggressiva e ‘cucita su misura’ in base alle caratteristiche del singolo paziente. Il centro esperto, quindi, prende in carico il paziente, lo segue periodicamente, cerca di cogliere tutti i miglioramenti o i peggioramenti della sua malattia, coinvolge la famiglia e i caregiver e offre un supporto psicologico ai pazienti stessi. Il rapporto con gli infermieri e con le associazioni è fondamentale per una gestione ottimale della IAP: questa condizione si affronta insieme e necessita di una grande sinergia tra tutte le forze in campo.
Come è stata organizzata, presso l’Ospedale Monaldi, la gestione dei pazienti con IAP durante l'attuale emergenza COVID?
Nel corso della pandemia di SARS-CoV-2, in particolare durante la prima ondata, abbiamo avuto un accesso ridotto agli ambulatori e ai reparti. Tuttavia, ai pazienti affetti dalle forme più avanzate di ipertensione arteriosa polmonare abbiamo assicurato controlli in presenza, mentre abbiamo monitorato i pazienti più stabili attraverso consulti telefonici e via web. Il paziente con IAP, per definizione, è un paziente fragile, e necessita di controlli e monitoraggi continui, per cui non può essere abbandonato al proprio destino nemmeno durante un’emergenza come quella dovuta al COVID-19.