Intervista-video al prof. Antonio Pisani, titolare della Cattedra di Nefrologia all’Università Federico II di Napoli
Il coinvolgimento renale rappresenta un evento decisivo nel paziente affetto da malattia di Fabry, e condizionante per la morbilità e la mortalità della patologia. I numerosi studi eseguiti negli ultimi anni hanno consentito un notevole miglioramento delle conoscenze sui principali aspetti della Fabry, tra cui, appunto, quello renale. Dell’argomento si è parlato a Milano, il 22 e 23 novembre, nel corso dell’evento “Time to Fabry”.
La malattia di Anderson-Fabry, più semplicemente nota come malattia di Fabry, è una condizione ereditaria causata da una mutazione genetica recessiva, legata al cromosoma X, che coinvolge il metabolismo dei glicosfingolipidi. Alla base della patologia vi è un deficit totale o parziale dell’enzima alfa galattosidasi, codificato dal gene GLA, fondamentale al catabolismo fisiologico dei globotriaosilceramidi. La diminuzione dell'attività dell’enzima provoca l'accumulo di globotriaosilceramide all'interno dei lisosomi, responsabile di modificazioni a catena in ambito cellulare e tissutale.
Nella forma classica della Fabry, che colpisce tipicamente il maschio emizigote, la nefropatia esordisce in genere in età giovanile con microalbuminuria e proteinuria, ed evolve verso l’insufficienza renale cronica (IRC) già nella terza-quarta decade di vita. Può quindi peggiorare rapidamente verso lo stadio terminale dell’IRC, portando il paziente alla dialisi e al trapianto. La grave compromissione renale è spesso accompagnata da comorbilità cardiovascolare e neurologica.
“Circa l’80% dei pazienti con forma classica di malattia di Fabry ha un coinvolgimento renale che implica una riduzione dell’aspettativa di vita di questi pazienti. Sicuramente, la dialisi e il trapianto hanno cambiato la loro aspettativa di vita ma non riescono a cambiare quello che è il quadro complessivo del coinvolgimento della malattia di Fabry, ed è quindi necessario un intervento che vada a colpire il meccanismo alla base della progressione del danno, nello specifico nel rene”, ha evidenziato il prof. Antonio Pisani, Cattedra di Nefrologia, Dipartimento di Sanità Pubblica, Università Federico II di Napoli.
Oggi, per la Fabry, sono a disposizione, oltre alla terapia enzimatica sostitutiva, anche nuovi farmaci, e altri arriveranno nel prossimo futuro, ma tutti hanno ragion d’essere se inseriti in un intervento precoce. “Soltanto l’intervento precoce, e quindi una diagnosi precoce, può in qualche modo bloccare un percorso che altrimenti porta alla definitiva perdita d’organo di questi pazienti”, ha aggiunto il prof. Pisani. Rimane perciò di fondamentale importanza una diagnosi precoce e precisa, che oggi si può ottenere grazie all’aumentata conoscenza di questa patologia. È possibile fare diagnosi precoce attraverso la valutazione dell’attività enzimatica sul plasma, ma anche attraverso la valutazione di alcuni segni e sintomi che ormai sono diventati caratteristici.
Per quanto riguarda il rene, alcuni segni tipici possono suggerire ai nefrologi il sospetto della possibilità di una patologia da accumulo lisosomiale e, nello specifico della malattia di Fabry; tra questi, bisogna considerare sicuramente la proteinuria, l’iperfiltrazione e la presenza di cisti parapieliche. “Arrivare, poi, alla diagnosi specifica, oggi è molto facile, grazie alla conferma attraverso la valutazione dell’attività enzimatica per il maschio”, ha concluso il prof. Pisani. “Anche ottenere la conferma genetica è semplice, sia nel maschio che nella femmina, e consente di iniziare un trattamento precoce per bloccare la progressione della malattia renale e non solo, in modo da salvare la vita dei pazienti”.