Stampa
Professor Andrea Frustaci

Il prof. Andrea Frustaci: “L'accumulo di glicosfingolipidi nelle cellule cardiache simula una comune cardiomiopatia ipertrofica”

Roma – Cuore, reni, cute, osso, cornea, retina, sistema nervoso centrale e periferico: sono gli organi maggiormente colpiti dalla malattia di Fabry, una patologia genetica rara da accumulo lisosomiale. Nei pazienti, la carenza di un enzima (l'alfa-galattosidasi A) provoca un accumulo di glicosfingolipidi che, a sua volta, danneggia organi e tessuti. “Fa eccezione il fegato, perché lì i glicosfingolipidi vengono trasformati in lipoproteine”, spiega Andrea Frustaci, professore ordinario di Cardiologia presso l’Università La Sapienza e direttore dei laboratori di Cardiologia cellulare e molecolare presso l’IRCSS Lazzaro Spallanzani di Roma.

L'incidenza della mutazione che provoca la malattia, a livello globale, è di circa un caso su 40.000 nascite, ma un recente studio ha suggerito che possa essere più alta, di un caso su 8-10.000”, prosegue Frustaci, responsabile regionale per la diagnosi e trattamento della malattia di Fabry presso il Policlinico Umberto I di Roma. “D'altra parte, un ulteriore studio ha rilevato una frequenza di un caso su 100-110.000. L'incidenza, dunque, cambia a seconda delle diverse popolazioni, e inoltre questi numeri sono relativi alla presenza della mutazione nei neonati, i quali potrebbero sviluppare la malattia (con un livello variabile di gravità) o non svilupparla affatto”.

Per rilevare la malattia esistono due esami: l'analisi dell'attività enzimatica e il test genetico. Nel maschio, che ha una sola copia del cromosoma X, è sufficiente rilevare l'attività enzimatica: se è inferiore al 10%, il paziente ha la malattia di Fabry. Nella femmina, invece, che ha due copie del cromosoma X, alcuni tessuti esprimono la X sana e altri la X malata; coesistono cellule sane e malate, ed è quindi necessaria l'analisi genetica. Quest'ultima, inoltre, è raccomandata per la ricerca della mutazione nei familiari dei pazienti che potrebbero averla ereditata.

“Per il trattamento della malattia abbiamo a disposizione due formulazioni di terapia enzimatica sostitutiva, a base di agalsidasi alfa e beta, che forniscono la proteina mancante. In più, c'è una terapia chaperonica orale, il cui obiettivo è stabilizzare l'enzima prodotto e impedirne il misfolding, la degradazione: questa opzione, però, è indicata solo per il 15-20% dei pazienti che hanno un'attività enzimatica residua, poiché il farmaco agisce soltanto per alcune mutazioni. Inoltre, due potenziali terapie sono in fase avanzata di sperimentazione: una è la terapia genica, che tramite dei vettori virali trasferisce il gene mancante nelle cellule, attivando la produzione dell'enzima, mentre l'altra è rappresentata dai farmaci che inibiscono la sintesi del substrato”, sottolinea il prof. Frustaci.

Nel trattamento di questi pazienti, la sfida più complicata che deve affrontare il cardiologo è l'accumulo di glicosfingolipidi nei lisosomi delle cellule cardiache, che simula una cardiomiopatia ipertrofica, ovvero un ispessimento del muscolo cardiaco, indistinguibile da quella dovuto ad altre cause. Le cellule aumentano di dimensione e presentano dei vacuoli con materiali di accumulo: in questo caso, per capire se la causa è la malattia di Fabry, occorre una biopsia.

Un altro problema è rappresentato dall'età in cui il paziente inizia la terapia enzimatica sostitutiva: il farmaco, infatti, per sciogliere i glicosfingolipidi o impedirne la produzione, deve entrare negli interstizi liberi fra le cellule. “Nella fase precoce – spiega Frustaci – precedente alla comparsa dell'ipertrofia cardiaca, la terapia provoca un forte rallentamento nella progressione della Fabry, ma più avanti con l'età subentra la fibrosi, la molecola entra con più difficoltà ed è meno efficace; le forme molto avanzate di malattia, infatti, rispondono debolmente al farmaco”.

Per fortuna, oggi, l'aspettativa di vita di questi pazienti, anche in assenza di trattamento, è di circa 55-60 anni, e di qualche anno in più grazie alla terapia”, conclude il cardiologo. “Il motivo è da ricercare in parte nell'azione del fegato, a cui accennavo prima, e in parte a un meccanismo di sopravvivenza delle cellule, che espellono i glicosfingolipidi in eccesso, riducendone l'accumulo all'interno. C'è però anche il rovescio della medaglia: questa azione delle cellule può dar luogo a una reattività immunologica che, a sua volta, può provocare un'infiammazione e contribuire alla progressione della malattia”.

Questo sito utilizza cookies per il suo funzionamento. Maggiori informazioni