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Terapia genica

I progressi raggiunti e le sfide da affrontare nello sviluppo di trattamenti in grado di ‘riparare’ il difetto del DNA alla base della patologia

Scoperta alla fine dell’Ottocento, la malattia di Anderson-Fabry, o semplicemente malattia di Fabry, è una patologia da accumulo lisosomiale che interessa tutto l’organismo, in cui la mancanza dell’enzima alfa-galattosidasi A, provocata da oltre 1.000 diverse mutazioni a danno del gene GLA, non consente un’adeguata degradazione dei glicosfingolipidi neutri. Tutto ciò determina l’accumulo di prodotti di scarto, come il globotriesosilceramide (Gb3), nei lisosomi cellulari.

Questa rapida spiegazione delle complesse dinamiche che scatenano la malattia presuppone di sapere che i lisosomi sono organelli diffusi nel citoplasma delle cellule e contenenti enzimi ad azione litica, come l'alfa-galattosidasi A, capaci di degradare alcune sostanze nocive per l’organismo. Senza questi enzimi, tali prodotti finiscono per accumularsi all’interno delle cellule, come una sorta di spazzatura impossibile da rimuovere. Queste sostanze in eccesso, oltre che nei lisosomi, si possono riscontrare nel plasma, nell’endotelio vascolare, nei vasi linfatici e, soprattutto, nelle cellule del cuore e del rene, dove sono causa di gravi danni. Ciò spiega perché molti pazienti – in particolare uomini, visto che la Fabry è una patologia ereditaria legata al cromosoma X – soffrano di complicazioni renali e cardiovascolari che possono portare anche alla morte. La malattia di Fabry, dunque, è una condizione di tutto l’organismo, che ha gravi ripercussioni su molti organi. Se a tutto ciò si aggiunge che il trattamento oggi esistente, la terapia di sostituzione enzimatica, non permette una cura definitiva della malattia, si può intuire come la comunità dei medici e dei pazienti abbia bisogno di nuovi ed efficaci strumenti di intervento.

Le più interessanti frontiere di trattamento della malattia di Fabry sono ben riassunte in una review pubblicata sulla rivista Molecular Genetics and Metabolism, in cui sono illustrati i progressi ottenuti nel campo della terapia genica e dell’editing del genoma. Infatti, secondo gli autori dell’articolo, le infusioni bisettimanali della terapia sostitutiva con alfa-galattosidasi A ricombinante hanno un certo impatto sulla qualità di vita dei pazienti e sulle casse dei sistemi sanitari nazionali. E nonostante ciò, i pazienti rimangono a rischio di complicanze. Di certo la terapia di sostituzione enzimatica rimane una preziosa risorsa, ma serve un trattamento potenzialmente in grado di risolvere in via definitiva il problema: in questo consiste la terapia genica, che permette di colpire alla radice la malattia, prendendo di mira il gene mutato e sostituendolo con una copia corretta. Ciò è reso possibile dall’utilizzo di svariati sistemi, primo fra tutti quello dei vettori virali (adenovirus, virus adeno-associati o lentivirus), svuotati del loro ‘contenuto genetico’ e caricati del gene GLA sano.

È impossibile condensare in poche righe il livello di complessità degli approcci di terapia genica ma, per quanto riguarda la malattia di Fabry, tutti i potenziali interventi che considerano tale opzione puntano a fare in modo che le cellule bersaglio riescano a produrre elevate quantità dell’enzima alfa-galattosidasi A, per poi farlo arrivare ai lisosomi: un gruppo di ricerca americano aveva osservato un incremento di più di 16 volte nell’attività dell’enzima in cellule opportunamente modificate. Sebbene tale scoperta abbia dato l’abbrivio allo sviluppo di questa strategia, il lavoro da svolgere è ancora molto e rimane legato alla scelta dei promotori, componenti che possono facilitare l’espressione del gene corretto nelle cellule. Attualmente, per la malattia di Fabry sono in corso diversi studi concentrati nella messa a punto di approcci che arrivino a colpire i tessuti e gli organi più delicati (cuore e reni). Senza trascurare l’identificazione del vettore virale più adeguato: quest’ultimo è un passaggio complicato perché alcuni dei vettori più comunemente usati possono suscitare reazioni avverse che devono essere tenute sotto controllo. Perciò è necessario studiare attentamente non solo i pazienti più adatti per questa forma di terapia - solitamente le terapie geniche funzionano meglio quando le manifestazioni della malattia sono minori, aspetto che prevede una diagnosi precoce - ma anche le possibili strategie per effettuare la correzione genica. Infatti, oltre che con i vettori virali, i geni corretti possono essere veicolati all’interno di involucri lipidici: con questa modalità, alcuni gruppi di ricerca hanno osservato una prolungata espressione dell’enzima alfa-galattosidasi A.

Un altro interessante fronte di studio è quello della terapia genica applicata alle cellule staminali ematopoietiche, i cui successi nel campo dell’adrenoleucodistrofia, della beta talassemia e delle immunodeficienze sono una nota realtà. In tal caso, le modifiche apportate a questo tipo di cellule sembrerebbero più stabili, riducendo l’eventualità di somministrazioni ripetute della terapia. In questo ambito, due trial clinici attualmente in corso sulla malattia di Fabry (NCT02800070 e NCT03454893) fanno uso di vettori lentivirali e hanno prodotto buoni risultati sia in termini di efficacia che di sicurezza.

La strada che porta a un trattamento è però ancora lunga e ulteriori conferme sono attese anche dagli approcci che ricorrono a tecniche di editing del genoma, fra cui l’ormai celebre CRISPR-Cas9. In questo specifico caso, il nodo della questione consiste nel riuscire ad ottenere alti tassi di inserimento del frammento genico nelle cellule bersaglio e non in altri siti sensibili.

Allo stato attuale delle cose, l’inserimento ex vivo del gene GLA sano nelle cellule staminali ematopoietiche, tramite vettore lentivirale, è la strategia in studio che sta fornendo maggiori evidenze in termini di sicurezza ed efficacia, ma le ricerche sui vettori virali adeno-associati stanno guadagnando terreno. Pertanto, guardando al futuro, si avverte un forte senso di incoraggiamento per la messa a punto di una terapia che non si limiti a trattare i sintomi della malattia di Fabry, ma che possa curare la patologia in via definitiva.

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