Il prof. Cecchi: “A livello internazionale serve un Network per gli studi. Da noi, invece, servono veri centri di eccellenza multidisciplinari”
FIRENZE - Il Prof. Franco Cecchi, specialista cardiologo, già responsabile del Centro di Riferimento per le Cardiomiopatie di Firenze, è uno dei maggiori esperti italiani di Cardiomiopatia Ipertrofica ed anche della malattia di Anderson Fabry. Osservatorio Malattie Rare lo ha intervistato per delineare le principali problematiche connesse alla patologia, alla luce anche di quanto emerso durante il Simposio dedicato alla Anderson Fabry, da lui organizzato, durante il Florence International Symposium on “Advances in Cardiomyophaties”, svoltosi a Firenze dal 26 al 28 settembre 2012.
“La diagnosi della malattia di Fabry – spiega il Prof. Cecchi - viene fatta solitamente con un ritardo medio di 10 anni. Principalmente ciò è dovuto alla scarsa conoscenza della malattia, ai sintomi, che sono molto variabili ed ai diversi organi che possono essere interessati. Se non la si conosce è difficile sospettarne la presenza”.
Quali sono i principali sintomi della malattia? E’ davvero così difficile da diagnosticare?
“Nel 50 per cento dei casi il sintomo iniziale più frequente è rappresentato dal dolore neuropatico, un dolore localizzato alle estremità, che può essere anche intenso. Gli specialisti consultati più spesso sono quindi i reumatologi, gli internisti ed i neurologi, che spesso trattano il dolore ma non identificano la causa. Altri specialisti che vengono consultati solitamente in età adulta, sono dermatologi, nefrologi, neurologi e cardiologi. Solo chi conosce le manifestazioni cliniche della malattia di Fabry può indirizzare i pazienti ad analisi specifiche. L’unico modo per diagnosticare precocemente la malattia di Fabry è quindi quello di promuoverne la conoscenza tra i diversi specialisti, oltre ad avere un metodo ed una sede dove poter fare gli accertamenti necessari alla diagnosi, come ad esempio succede a Firenze.”
Come viene effettuata la diagnosi della patologia?
“Il metodo attualmente utilizzato è costituito dall’analisi dell’attività dell’enzima alfa galattosidasi leucocitaria, che si esegue attraverso un prelievo di sangue. Se assente o nettamente ridotta, questo è sufficiente per fare la diagnosi negli uomini. Ma deve essere effettuato da un laboratorio con elevata professionalità ed esperienza e deve poi essere confermato dalla identificazione della mutazione genetica. Nelle donne, nelle quali talvolta può risultare normale anche in presenza della malattia, è necessario procedere subito alla ricerca della mutazione genetica. In Italia i laboratori con grande esperienza per effettuare questo test sono pochi, probabilmente una decina. Purtroppo siamo ancora lontani dall’avere una rete di laboratori autorizzati e certificati, sulla base delle competenze, dal Sistema Sanitario Nazionale per questo esame.”
Per quanto riguarda lo screening genetico, che deve essere effettuato sul paziente che si sospetta essere affetto da malattia di Fabry e sui suoi familiari, il prof. Cecchi è stato piuttosto chiaro. “E’ fondamentale che il test genetico venga sempre preceduto da una consulenza genetica, che faccia comprendere al paziente la sua utilità, la modalità di trasmissione genetica e permetta di acquisire informazioni sulla famiglia”. I pazienti possono essere portatori di una delle 600 mutazioni che causano la malattia, che però può manifestarsi magari solo in età adulta oppure in forma lieve. In più il risultato del test genetico, se positivo, dovrebbe essere comunicato dal genetista al paziente in modo tale da farne comprendere il significato e offrirlo anche ai familiari.”
A suo avviso sarebbe pensabile un test di screening neonatale per la malattia di Fabry?
“Per problemi etici e gestionali allo stato attuale un test di screening neonatale è difficilmente attuabile. Identificare le mutazioni genetiche che sono possibili cause di malattia appena nati ha sicuramente un grande valore scientifico, ma nella pratica clinica le cose sono un po’ diverse. Al momento è quasi impossibile determinare con certezza se e quando il portatore di una mutazione manifesterà la malattia. Inoltre abbiamo alcuni dati scientifici che suggeriscono che alcune mutazioni sono responsabili di un quadro di malattia più precoce e più grave, ma per poter valutare l’impatto della singola mutazione genetica sarebbero necessari studi multicentrici che consentano di raccogliere casistiche molto ampie, e che non sono stati ancora realizzati. “
“Le associazioni di pazienti potrebbero promuovere studi a livello multicentrico nazionali ed internazionali. – prosegue Cecchi - Un network europeo o internazionale è un’esigenza che noi specialisti sentiamo molto, insieme a quella di costituire a livello nazionale dei Centri di riferimento di eccellenza, multidisciplinari per questa malattia e laboratori certificati che garantiscano competenza e professionalità. Ad esempio, in Gran Bretagna, che ha una popolazione simile alla nostra, i centri autorizzati sono solamente 6. In Francia esiste un Centro di riferimento unico per tutta la nazione.”
C’è qualche novità che è emersa dal recente convegno internazionale da lei organizzato?
“Al convegno fiorentino si è poi discusso non solo dell’importanza di una diagnosi precoce ma anche quando iniziare il trattamento con enzima sostitutivo e le terapie concomitanti. Sui risultati e benefici della terapia con enzima sostitutivo dei pazienti affetti, purtroppo non disponiamo ancora di dati certi, in quanto non sono stati effettuati studi clinici randomizzati. D’altra parte in alcuni studi è stato dimostrato che la terapia è più efficace quanto più è tempestiva. Viceversa sembra invece che sia di scarsa utilità nel caso in cui siano già insorti danni d’organo severi, difficilmente reversibili. Tuttavia, si apre un ulteriore dibattito che ancora una volta ha un risvolto etico, che dovrebbe essere regolato a livello nazionale ed internazionale, per decidere quando non è indicato continuare la terapia enzimatica sostitutiva, nei pazienti con danno d’organo irreversibile. In questa ottica, guardiamo con interesse al lavoro del EFWG – European Fabry Working Group – un gruppo indipendente, di cui fanno parte i più grandi esperti della malattia, che sta lavorando proprio alla creazione di un network internazionale, che possa programmare studi multicentrici per valutare l’effetto della terapia e supportare decisioni delicate di questo tipo, peraltro già pubblicate durante il periodo di carenza dell’enzima sostitutivo.”
“In futuro – conclude - ci sono nuove prospettive che fanno sperare nell’aumento dei benefici nei pazienti affetti. Fra questi ci sono farmaci, definiti “chaperon”, che aumentano l’attività dell’enzima, in pazienti con specifiche mutazioni genetiche con attività enzimatica bassa ma non assente. Anche a Firenze sono in corso sperimentazioni cliniche con queste molecole. In futuro la speranza è riposta nella terapia genica, che in questo momento è solo studiata in animali da laboratorio, con parziale successo”.