Educatore e consulente della Fondazione CHDI per la ricerca sulla malattia di Huntington, l'esperto spiega cosa nasconda la patologia e come evitare di esserne ingannati
La malattia di Huntington non è una malattia come tante. L’Huntington non dà e non toglie: dare e togliere sono concetti che non hanno senso quando si ha a che fare tutti i giorni con una patologia neurodegenerativa come questa. La malattia di Huntington, piuttosto, 'nasconde'; come una maschera, tipo quelle che gli antichi greci utilizzavano nelle rappresentazioni teatrali per stereotipare un volto, un personaggio. Ed è proprio la 'maschera' l’immagine che Jimmy Pollard, educatore e consulente della Fondazione CHDI (la principale organizzazione degli Stati Uniti per la ricerca sulla malattia di Huntington), utilizza durante le sue conferenze in giro per il mondo per descrivere i vari aspetti dell’Huntington, con l’obiettivo di cambiare la prospettiva dei caregiver sulla malattia e i pazienti.
Ospite dell'Associazione Italiana Corea di Huntington Milano (AICH Milano Onlus), lo scorso 4 dicembre, Pollard ha delineato ai presenti (familiari, amici, operatori sanitari, medici e psicologi) un quadro della malattia di Huntington dai contorni sfumati, perché, alla luce della sua lunga esperienza nella gestione di questi pazienti, sa che di certezze e di risposte ce ne sono veramente poche. Quello che può offrire, a tutti coloro che si prendono quotidianamente cura di una persona affetta da Huntington, è un semplice punto di vista: “la malattia di non vi sta togliendo il vostro caro o il vostro paziente; lo sta solo celando, rendendolo a voi irriconoscibile”. Qui, secondo Pollard, si gioca la partita per migliorare l’assistenza ai malati: bisogna prendere atto della maschera dell’Huntington. È questa la chiave per non essere ingannati, “per vedere attraverso la maschera e per imparare a interpretare i comportamenti, le reazioni, i pensieri di un malato”.
Il 'travestimento' dell’Huntington è sostenuto da motivi biologici, dice Pollard, che alterano i movimenti, l’umore e il pensiero della persona che ne è colpita. È come se, alla fine, il malato parlasse una lingua che il caregiver non riesce a capire, o, per meglio dire, capisce male.
I disturbi motori
La debolezza generalizzata dei muscoli facciali, causata dalla neurodegenerazione, fa assumere al malato un’espressione neutra, apatica. Il caregiver non ha gli strumenti per interpretare questa mimica facciale, ed è spinto a chiedersi se il paziente sia contento di vederlo oppure infastidito. Non essendo in grado di darsi una risposta, cerca altri indizi nell’atteggiamento dell'assistito, che però rischiano di portarlo ulteriormente fuori strada. “Se il paziente non mantiene il contatto visivo con voi mentre parlate, se mentre cercate di stabilire una connessione la sua postura cambia ed egli si stravacca o si incurva - esemplifica Pollard - non è affatto detto che sia annoiato o disinteressato, come saremmo portati a credere istintivamente”. Queste sono tutte conseguenze delle alterazioni motorie della malattia.
Un altro aspetto spesso frainteso dai caregiver è l’irruenza dei movimenti di un malato, che possono essere interpretati come rabbia o aggressività. “Invece, anche una porta sbattuta violentemente o un bicchiere rotto fanno parte della maschera dell’Huntington”, spiega Pollard. La malattia, infatti, fa perdere il controllo dei muscoli, che imprimono troppa o troppo poca forza anche nei gesti più semplici.
I disturbi cognitivi
L'elemento chiave per smettere di commettere errori di valutazione nel rapporto con un paziente è 'il tempo'. Nel malato di Huntington, la capacità di elaborare le informazioni viene compromessa e il suo pensiero diventa più lento rispetto a quello del caregiver. “Il botta e risposta, in una conversazione con un malato di Huntington, è sbilanciato”, precisa Pollard durante il suo intervento. Il malato elabora i concetti più lentamente del suo interlocutore e può sentirsi sopraffatto e frustrato perché, nella sua percezione, i quesiti sono continui e incessanti, e non lasciano il tempo per ribattere. Dalla parte del caregiver, invece, la sensazione è quella di un’attesa continua.
Che fare?
Purtroppo, una vera e propria ricetta su come comportarsi non c’è. “Vi posso dire cosa sarebbe necessario fare, ma non posso dirvi che sarà semplice”, spiega Pollard. “perché si tratta di aspettare e di sbrigarsi allo stesso tempo”. Rispettare i tempi del malato, vedere oltre la maschera dell’Huntington e adattarsi alle condizioni che essa impone, significa, innanzitutto, rallentare i ritmi di vita. “Se potete aspettare, fatelo”, suggerisce l'esperto, che però aggiunge : “se il malato, invece, vi chiede qualcosa, non potete aspettare, dovete muovervi e farla”. Non c’è compromesso: la malattia di Huntington ha solo pretese.
“Come si sente un caregiver in questa situazione? Esattamente come il paziente: esasperato!”, conclude Jimmy Pollard. “Ma alla fine, prendersi cura di una persona malata di Huntington è tutta una questione di cuore: è un profondo atto d’amore per l’essere umano”.