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Neonato

Dalle parole di Marco un resoconto delle difficoltà e dei conflitti che affrontano le famiglie colpite dalla patologia

La malattia di Huntington ha non solo un tremendo impatto sul fisico e sulla mente dei malati, ma anche delle ricadute psicologicamente pesanti sulle scelte che essi stessi, o i loro figli possono compiere. Una di queste scelte riguarda la possibilità di diventare genitori. Oggi, grazie alla procreazione assistita e alla diagnosi genetica pre-impianto, esistono delle opportunità perché ciò si renda possibile senza che i nascituri siano affetti da questa patologia ereditaria, ma non tutti hanno la possibilità di ricorrervi.

Molte persone, ad esempio, scoprono di avere un legame con la malattia dopo aver già avuto dei figli. Questo, in molti casi, suscita una serie di sentimenti contrastanti che si riflettono anche sul conflitto tra il diritto di sapere (che i genitori si arrogano) e quello di non sapere (che spetta alla giovane vita che nascerà): a spiegarlo è Marco (nome di fantasia), che ha deciso di raccontare la propria storia all’Osservatorio Malattie Rare.

Ho saputo da poco di essere a rischio di sviluppare la malattia di Huntington. Per me è stato un fulmine a ciel sereno”, esordisce Marco. “Io e mia moglie, Anna, abbiamo già due figli e, nel momento in cui ho capito che ognuno di loro ha il 50% delle possibilità di aver ereditato da me la malattia, la mia vita è andata in frantumi. Soprattutto perché Anna era in attesa del nostro terzo figlio. Mio padre soffriva di un disturbo motorio che se l’è portato via in fretta, ma i miei rapporti con lui sono sempre stati piuttosto freddi e distaccati, per cui ho appreso solo dopo la sua morte in cosa consistesse quel disturbo e, dopo una rapida ricerca, mi sono reso conto che c’erano alte probabilità che quel gene malato fosse stato trasmesso a me. E di conseguenza ai miei figli. Il senso di colpa che ho provato mi ha internamente svuotato, tanto che non sono stato in grado di reagire. Di solito sono un uomo pratico e razionale, ma in quell’occasione non mi sentivo in grado di dire o fare alcunché. Era come se fossi paralizzato dalla rabbia per il destino che mi aspettava e dal senso di colpa per aver, in un certo senso, rovinato le vite dei miei figli, che in cuor mio speravo non avessero ereditato quel gene. Fino a che non saranno maggiorenni non lo sapremo, ma esisteva una possibilità di capire qualcosa di più sul bambino che Anna portava in grembo”.

Fu proprio mia moglie a suggerire di fare una diagnosi prenatale”, prosegue Marco. “Ne aveva letto su internet e lei più di tutti aveva bisogno di sapere. Se anche il gene della malattia di Huntington fosse stato presente nel corredo del bambino, Anna mi disse che non avrebbe rinunciato a portare a termine la gravidanza. L’idea di mettere fine a quella piccola vita innocente per lei era impossibile, ma non voleva più affrontare altre sorprese. Era arrabbiata per la sorte che ci era toccata così all’improvviso, per la possibilità di perdere la sua famiglia, e voleva sapere ed essere preparata”.

I medici con cui effettuammo la prima consulenza – ricorda Marco – ci spiegarono che il diritto di sapere di noi genitori era in collisione col diritto di non sapere del bambino, una volta che fosse diventato adulto. Quelle parole mi colpirono come una raffica di fucile. Non avevo mai pensato alla situazione in questi termini. Ricordo che guardai Anna e vidi che una crepa si era insinuata anche nella sua ferrea convinzione. Ripensai al mio vissuto personale e al rapporto con mio padre, che avevo scelto di ignorare senza mai provare a ricucire, anche nel momento in cui avevo appreso che era affetto da una malattia che non sarebbe stato in grado di superare. Allora avevo ritenuto di avere il diritto di fare le mie scelte e quella parola, “diritto”, adesso mi rimbombava come un’eco nel cervello. Quando tornai con il pensiero al momento che stavo vivendo osservai che Anna stava ancora discutendo animosamente con i medici, i quali le stavano spiegando come una notizia di quel tipo avrebbe creato disparità tra i nostri figli, perché uno di loro avrebbe saputo ciò che per gli altri sarebbe stato motivo di tormento ancora per anni. Guardandola attentamente mi resi conto che la sua arrabbiata resistenza era solo un modo per sfogare la frustrazione e lo stress delle passate settimane. Era chiaro che aveva già cambiato idea, ma non riusciva ad ammetterlo a sé stessa. La invitai ad uscire un attimo e dopo averla guardata negli occhi e abbracciata, insieme a lei tornai in quello studio per dire ai medici che avevamo cambiato idea. Quello che ci sembrava una specie di risarcimento per la nostra tardiva presa di conoscenza della malattia di Huntington e una forma di protezione da altre sorprese non era, in realtà, qualcosa di dovuto a noi genitori, bensì riguardante nostro figlio e le sue scelte di uomo”.

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