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Caregiver

La testimonianza di Romina: “Servirebbero strutture specializzate, con personale medico in grado di comprendere tutti gli aspetti di una patologia così complessa”

Mio padre è nato in una famiglia con 7 figli: lui è uno dei tre ad aver sviluppato la malattia di Huntington. Tra gli altri, c’è stato un fratello che ha dedicato la sua intera vita ad assistere mio padre, permettendo a mia madre di lavorare per sostenere me e i miei fratelli mentre crescevamo e studiavamo. Penso che zio abbia rinunciato a costruirsi una famiglia per stare accanto a quella di suo fratello, che per primo aveva ereditato la malattia, scegliendo di prendersi cura di lui fino alla fine (zio è morto prima di mio padre). Per noi ragazzi è stato come un padre, ed era la persona che faceva sempre tutto il possibile per tenere unita la famiglia, e perché non ci nascondessimo ma parlassimo di questa situazione”. È impossibile restare indifferenti di fronte alla descrizione che Romina fa di suo zio, perché in poche parole spiega perfettamente cosa significhi assistere una persona affetta da una patologia neurodegenerativa come la malattia di Huntington: vuol dire dedicarsi interamente, con empatia e comprensione, accettare che ogni giorno si possa presentare un nuovo ostacolo e prendersi cura non solo di una persona, ma di tutto il suo nucleo familiare, che non di rado include dei bambini.

Bambini proprio come era Romina quando ha cominciato a confrontarsi con la Huntington: suo padre ha sviluppato i primi segni della malattia ad appena 38 anni, e a circa 45 si è visto costretto a smettere di lavorare, perché la sua professione di muratore era divenuta incompatibile con i sintomi. “All’inizio, per lui è stato difficile accettare la situazione e per anni non ha voluto inoltrare la domanda di pensionamento”, ricorda Romina. “Mia madre, che col matrimonio aveva deciso di lasciare il suo lavoro per seguire i figli, è tornata al suo impiego di commessa. Inizialmente i medici ipotizzarono che mio padre fosse affetto da una pesante depressione, scatenata dallo spavento per aver assistito a un incidente stradale. Ma col tempo si intuì che c’era dell’altro”. Il padre di Romina era vittima di spasmi motori involontari e soffriva di una certa instabilità dell’umore. Fu ricoverato in tanti ospedali, anche universitari, e un neurologo di Sassari riuscì ad associare il suo quadro clinico alla diagnosi di Huntington. Quando fu chiaro che si trattava di una malattia ereditaria, la famiglia di Romina si spostò anche a Milano in cerca di aiuto, di una qualche speranza. A quel tempo non esisteva ancora il test genetico e né Romina né i suoi fratelli avevano modo di sapere se avessero o meno ereditato la mutazione che causa la malattia. Passarono diversi anni prima che anche questo lato della patologia venisse allo scoperto: una notizia che ognuno dei 3 fratelli accolse a suo modo.

Un giorno ci fu spiegato che era stato scoperto il gene della malattia di Huntington e che era possibile effettuare il test”, racconta Romina. “Mia madre ci ha sempre lasciati liberi di decidere e ognuno di noi tre ha compiuto scelte diverse. Mio fratello Luca decise di sottoporsi all'esame all’età di 40 anni, nonostante avesse già iniziato a mostrare i primi sintomi della malattia. Sapeva che il risultato sarebbe stato positivo e aveva già pianificato la sua esistenza, compresa la relazione sentimentale con la sua compagna”. Se l’esito del test fosse stato positivo, Luca avrebbe concluso il rapporto, perché sapeva cosa significava vivere con un malato di Huntington. La sua compagna, tuttavia, non voleva che lui si sentisse obbligato a conoscere il risultato e, poco prima dei 40 anni di Luca, fu lei a porre fine alla relazione, per permettergli di essere libero di non fare il test se avesse voluto. Ma Luca aveva preso quella decisione a prescindere dal suo rapporto con lei. Dopo un mese dalla rottura conoscevano già l’esito dell’esame: positivo. “Luca ora ha bisogno di aiuto 24 ore su 24, ma io e mia mamma gli siamo sempre accanto”, spiega Romina. “Vive in casa con mia madre, che però comincia a diventare anziana. Per fortuna abbiamo percepito degli aiuti economici per l’assistenza, e la Legge 104 mi permette di disporre di giorni di astensione dal lavoro per accudirlo. Inoltre, lui ha la sua pensione di inabilità al lavoro e usufruisce dell’assistenza domiciliare, fa fisioterapia ed è circondato dall’affetto di amici e parenti”. Si tratta di un supporto concreto che si aggiunge all’inestimabile amore di una famiglia che aveva già dovuto affrontare la malattia. “Anche mio padre è stato per lungo tempo allettato – racconta Romina – e aveva bisogno di assistenza continua, ma io ricordo ancora che, nonostante la patologia lo avesse reso pian piano impotente, la sua presenza fisica era un rifugio per me e i miei fratelli. Ricordo le sfide con loro per avere un posto nel suo letto, le coccole, le risate, la musica, i massaggi alle mani e ai piedi. Gli facevamo la barba ogni mattina e non dimenticherò mai il profumo della sua pelle”.

Anche la sorella di Romina, come il fratello, ha ereditato e sviluppato la malattia di Huntington. “Quando ha iniziato ad ammalarsi è stato durissimo. Diversamente da mio fratello, che mostrava principalmente sintomi motori e cognitivi, il problema più evidente di mia sorella era la componente psichiatrica, con crisi di panico profonde e destabilizzanti per la famiglia che aveva voluto crearsi”, aggiunge Romina. “Da due anni è ricoverata in una struttura, dove però non si pratica fisioterapia personalizzata e non c’è un neurologo o uno specialista per la sua malattia. Gli operatori che la assistono tutti i giorni sono veramente bravi e si prendono cura di lei, senza farla sentire in colpa, ascoltandola anche quando si lamenta di qualcosa, ma ciò che manca è una parte medica espressamente rivolta alla Huntington. Bisognerebbe migliorare queste strutture, aggiungendo personale adeguato, che conosca le problematiche della malattia e si occupi dei pazienti secondo le linee guida, o avere istituti appositi, con tutte le figure che servono, come lo psichiatra, lo psicologo o il nutrizionista, solo per dirne alcune”.

E Romina? Per lei, la notizia che la malattia di Huntington era ereditaria, che poteva esserne affetta e che avrebbe potuto trasmetterla ai suoi figli è stata qualcosa di inatteso e spaventoso. Per tantissimi anni ha preferito non fare il test, non perché non volesse, ma perché ne aveva paura: sapeva troppo bene cosa significasse. Per tantissimo tempo ha rimandato e, così come suo zio, ha avuto difficoltà a farsi una famiglia. Oggi, però, ha un compagno che le vuole bene, che ha visto e vissuto con lei la malattia Huntington. Romina ha rinunciato ad avere figli, si è dedicata al padre, al fratello e poi alla sorella, con grande amore ma con un peso dentro. Due giorni dopo l’esito del test della sorella, anche lei ha deciso di fare l’esame: risultato negativo, lei non avrà la malattia. Ma dalla Huntington non si è mai del tutto liberi, è un affare di famiglia. “Mia madre, a 80 anni, ha vissuto la malattia del marito, poi di un figlio e poi dell’altra ma, nonostante il dolore e i segni evidenti della stanchezza, lei è una roccia, un esempio di donna, moglie e madre”, conclude Romina. “Serve amore per far sentire persone come mia sorella e mio fratello parte di una famiglia, io l’ho visto mettere in pratica da mia madre e da mio zio, e da tanti parenti e amici. Io stessa avrei voluto poter fare di più per i miei fratelli. Basterebbe cominciare ad ascoltare la voce dei pazienti, perché questo è il dramma più grande della malattia di Huntington: non essere creduti e considerati”.

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