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malattia di Pompe, famiglia MarianoNicola compirà 10 anni a febbraio. “Alla nascita hanno riscontrato un’ipertrofia cardiaca, lo davano per spacciato, ma Nicola è ancora qui con noi. Questo perché non ci siamo mai arresi, e non intendiamo arrenderci proprio ora”. Inizia così il racconto di Antonietta Mariano, la mamma di Nicola, un bimbo che ha la malattia di Pompe (glicogenosi di tipo II), una rara e grave patologia che impatta duramente sulla vita del bambino e della sua famiglia. “Dopo la diagnosi di ipertrofia cardiaca non vivevamo più, temevamo che nostro figlio ci lasciasse da un momento all’altro. Per questo ci siamo informati, lo abbiamo portato al policlinico di San Donato Milanese, dove avevamo un contatto. Immediatamente hanno capito che l’ipertrofia cardiaca era solo un sintomo, che la causa era molto più complessa”.

La diagnosi arrivò di lì a poco, a conferma del sospetto dei medici: malattia di Pompe! Inutile dire che non ne avessi mai sentito parlare”, ricorda Antonietta. “A soli tre mesi, Nicola iniziò le infusioni con la terapia enzimatica sostitutiva, presso l’ospedale San Gerardo di Monza, centro di riferimento regionale per questa malattia, diretto dalla Dr.ssa Rossella Parini. Restammo al San Gerardo per tre mesi, poi a casa, finalmente”.

Il piccolo Nicola dovrà essere sottoposto a terapia per tutta la vita. “Noi viviamo ad Accettura, un paesino di montagna, in provincia di Matera”, racconta ancora la madre. “Nicola è seguito al San Carlo di Potenza, dove una volta a settimana ci dobbiamo recare per le terapie. Oggi mio figlio vive allettato, attaccato a un respiratore 24 ore su 24, si nutre con la PEG, ha continua necessità di aspirazione. Una volta a settimana dobbiamo portarlo in ospedale, percorrendo circa 50 km di strada tutta curve, trasportando in auto tutta l’attrezzatura che permette a Nicola di vivere. Ci vuole un’ora per andare e un’ora per tornare, e dobbiamo restare in ospedale tutto il giorno, senza contare che in ospedale c’è sempre il rischio di prendere qualche virus. Per un bimbo come lui una gastroenterite può essere fatale”.

“Fino a 9 mesi Nicola stava bene – prosegue la donna – stava seduto da solo, rideva. Dopo poco accadde un drammatico episodio e, in emergenza praticarono una tracheotomia, che poi divenne tracheostomia, e la necessità della nutrizione via PEG, cioè tramite una sonda che arriva direttamente allo stomaco. Nonostante ciò, dopo qualche tempo si era ripreso, aveva iniziato a reggere il capo e usava il PC per comunicare. Poi, purtroppo, è peggiorato di nuovo e ormai da molti anni non muove più nemmeno le mani. Però è in grado di comunicare, a modo suo, e di apprendere. Segue un percorso di istruzione domiciliare: l’insegnante viene a casa 3 volte a settimana”.

“Abbiamo un minimo di supporto: un’infermiera viene a casa tutti i giorni per 3 ore, ma Nicola ha bisogno di assistenza 24 ore su 24”, spiega Antonietta. “Negli ultimi anni uscire con lui all’aria aperta è sempre più difficile: soffre di attacchi di panico, è a disagio tra la gente. Anche andare in ospedale è fonte di grandissimo stress. Quando abbiamo appreso, grazie all’Associazione Italiana Glicogenosi (AIG), della possibilità della terapia a domicilio, abbiamo iniziato a sperare. Certo non cambierebbe completamente la complessità della situazione, ma certamente ci renderebbe la vita un po’ più facile e permetterebbe a Nicola di evitare una fonte di stress non indifferente”.

La famiglia Mariano non è una famiglia ricca. A lavorare è solo papà Giuliano e Nicola ha anche una sorella adolescente. Antonietta assiste Nicola giorno e notte, non può certamente lavorare. Pagano un mutuo sulla prima casa, come tante famiglie italiane. Hanno però dovuto prendere in affitto anche un appartamentino al piano terra, perché con Nicola era impossibile fare le scale una volta a settimana, per portarlo in ospedale. Hanno dovuto acquistare un’auto in grado di trasportare il piccolo in carrozzina, con tutti i macchinari necessari alla sua sopravvivenza. Hanno dovuto lottare per ottenere i diritti fondamentali per una persona con una disabilità grave come quella di Nicola: lottare per ottenere il contrassegno per il posto auto disabili, lottare per ottenere un parcheggio disabili vicino a casa, lottare per ottenere i contributi (previsti per legge) per l’installazione di una rampa che permetta a Nicola di uscire di casa.

“Praticamente tutto lo stipendio se ne va tra mutuo, affitto e spese quotidiane – spiega Antonietta – ma noi chiediamo solo di poter offrire ai nostri figli il meglio possibile. Nicola avrebbe necessità di assistenza psicologica, per imparare a gestire gli attacchi di panico, ma pare che nessuno psicologo dei servizi pubblici sia disposto a lavorare con lui. Io non posso certamente pagare anche l’assistenza psicologica privata, così come mi hanno invitata a fare”.

“Noi riceviamo l’assegno di cura – conclude la donna – con il quale riusciamo a far fronte ad alcune spese, ma questo contributo fa cumulo con il reddito, quindi per lo Stato il nostro ISEE è troppo alto per ottenere altri benefici. Capisco perfettamente che ci siano famiglie che vivono difficoltà anche maggiori della nostra ma certamente, per noi, la situazione non è rosea”.

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