Intervista al dott. Luigi Ruffo Codecasa, Responsabile del Centro di Riferimento per la Tubercolosi della Regione Lombardia
Sono 16 i casi di infezione da Mycobacterium chimaera, e 6 i decessi, avvenuti in 5 reparti di cardiochirurgia del Veneto negli ultimi 8 anni, su un totale di oltre 30.000 interventi chirurgici eseguiti nella regione. Eppure, questi numeri sono bastati a diffondere nella popolazione il timore del contagio. Qualcuno ha incautamente parlato di “batterio killer”, altri si sono spinti a ipotizzare una possibile epidemia, con il risultato che i centralini telefonici degli ospedali e dei laboratori di analisi privati sono stati bombardati dalle telefonate di persone preoccupate o convinte di essere state contagiate dal batterio in sala operatoria. Molti chiedono informazioni sul tipo di batterio, tanti si spingono a domandare se esista un test diagnostico specifico o un esame per la ricerca degli anticorpi, altri si chiedono quale terapia assumere. I giornali fanno confusione, le dichiarazioni si accavallano e c’è un pressante bisogno di fare chiarezza.
Intervistato dall’Osservatorio Malattie Rare, il dott. Luigi Ruffo Codecasa, Responsabile del Centro di Riferimento per la Tubercolosi della Regione Lombardia, ha risposto ad alcune importanti domande su questo delicato e scottante tema di attualità, che vede come protagonista una specifica tipologia di micobatterio non tubercolare (NTM).
Dott. Codecasa, che tipo di organismo è il Mycobacterium chimaera?
“Identificato per la prima volta solo nel 2004, il M. chimaera è un micobatterio non tubercolare che fa parte della famiglia del M. avium e del M. intracellulare, con i quali condivide alcune caratteristiche per le quali rientra in quello che si può definire avium complex. Non è particolarmente frequente rispetto alle altre due specie, dalle quali non differisce troppo in termini di patogenicità e virulenza. Il chimaera è un micobatterio ampiamente diffuso nell’acqua e nel suolo e il suo riscontro su campioni di tipo respiratorio è limitato rispetto agli altri due micobatteri. Tuttavia, analogamente agli altri micobatteri della stessa famiglia o di altre famiglie, può occasionalmente colonizzare strumentazioni biomedicali, come testimoniato da alcuni casi d’infezione da M. chimaera riscontrati, a distanza di mesi, in seguito ad intervento chirurgico a cuore aperto. Un po’ quello che è accaduto in Veneto”.
Come è avvenuto il contagio nei casi saliti alla ribalta della cronaca?
“Il M. chimaera ha contaminato la strumentazione che, durante gli interventi di cardiochirurgia a cuore aperto, serve a regolare la temperatura della circolazione del sangue extracorporea. La contaminazione, quindi, ha riguardato semplicemente lo strumento utilizzato. Tuttavia, in casi estremamente rari, il chimaera è in grado di trasferirsi dalla strumentazione diagnostica al paziente. In tal caso, il problema è che, a seconda della localizzazione della colonizzazione e della sua successiva attivazione come patogeno, la prognosi può essere più o meno sfavorevole. Se il micobatterio si impianta a livello respiratorio o ad altri livelli, intaccando altri organi, può provocare una patologia di per sé piuttosto impegnativa.”
Quali sintomatologia produce, di solito, la malattia causata da M. chimaera?
“I sintomi dell’infezione sono molto vaghi, possono presentarsi a lunga distanza dal momento del contagio e, per certi versi, assomigliano a quelli dell’influenza, dal momento che i soggetti colpiti sperimentano febbri prolungate, calo di peso, tosse, astenia, dolore muscolare, affaticamento, disturbi gastrointestinali e, in casi più specifici, possono osservare la presenza di sangue nell'espettorato. Tuttavia, il contagio non avviene mai da persona a persona”.
Come si esegue la diagnosi?
“In una localizzazione così atipica come quella dei pazienti venuti in contatto con il M. chimaera in sala operatoria, la diagnosi se effettua eseguendo un’emocoltura [esame colturale del sangue, N.d.R.] perché il batterio ha raggiunto le valvole cardiache. Negli altri casi, si esegue con un esame colturale dell’escreato utile per l’identificazione di batteri, funghi o parassiti del tratto respiratorio, maggiormente colpito da questo tipo di infezioni. Non esistono test diagnostici su prelievo endovenoso di sangue e nemmeno la ricerca di anticorpi specifici. L’esame di riferimento rimane quello colturale. Su terreni di coltura adatti, i micobatteri non tubercolari crescono nel giro di qualche settimana e, in seguito, ricorrendo a raffinate metodiche di biologia molecolare, l’organismo che è causa dell’infezione viene isolato e identificato”.
Esiste una terapia per contrastare questo tipo di batterio?
“La gran parte dei pazienti colpiti da malattia da micobatteri non tubercolari viene curata con cocktail di terapie antibiotiche lunghe e complicate, che comprendono farmaci come rifampicina, claritromicina, azitromicina, etambutolo e aminoglicosidi per via sistemica o aerosolica, a secondo della localizzazione. Di norma, il paziente immunocompetente riesce a tenere sotto controllo il patogeno, ma nei soggetti immunodepressi, come in quelli affetti da HIV o da fibrosi cistica, la situazione può raggiungere alti livelli di drammaticità, come accaduto al paziente veneto, dove la somma di diversi fattori gravi è sfociata in una situazione dall’esito infausto. I micobatteri non tubercolari sono sicuramente agenti patogeni di notevole importanza, ma la definizione “batterio killer” è un po’ esagerata e rischia di instillare sfiducia nella gente, nei confronti dei reparti ospedalieri, magari dissuadendo qualcuno dal sottoporsi ad operazioni chirurgiche necessarie e salvavita”.
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