A parlare è Chiara, affetta dalla malattia come due dei suoi figli.
Intervistata nell'ambito dell'iniziativa di sensibilizzazione #rachitismoXLH, la donna racconta le peripezie vissute per giungere a una corretta diagnosi
“Intorno al 1997-98, con la nascita della figlia di un mio cugino, nella mia famiglia abbiamo iniziato a fare ricerche sulla possibilità che molti di noi fossero affetti da rachitismo ereditario”: a parlare è Chiara (nome di fantasia), una donna italiana che oggi ha 40 anni e che è madre di 3 bambini: due di loro, Francesco, di 10 anni, e Paolo, di 2 anni, (nomi di fantasia), soffrono, come lei, di ipofosfatemia legata all'X (XLH), una patologia rara che rappresenta, appunto, la più comune forma di rachitismo di origine genetica. “Mio padre, soffrendo di rachitismo come altre sue sorelle, aveva già questa fissazione alla mia nascita”, prosegue Chiara. “Continuava a dire ai medici di controllarmi le gambe, ma loro rispondevano che io non avevo nulla perché il rachitismo, praticamente, non esisteva più, dato che era legato alla malnutrizione o alla cattiva alimentazione in tempi di guerra”.
“Inizialmente, per le nostre indagini sulla malattia ci siamo rivolti a una professoressa che poi, in seguito, è andata in Germania, portando con sé le nostre analisi del DNA”, ricorda la donna. “Ciò che ci era stato riferito, a grandi linee, era che erano state riscontrate anomalie riguardanti il gene PHEX, ma non avevamo in mano alcun tipo di dato, tantomeno cartelle cliniche. Tempo dopo, in occasione della mia prima gravidanza, mi sono rimessa in moto per cercare di ottenere una diagnosi chiara e definitiva e sono arrivata alla professoressa Maria Luisa Brandi, di Firenze. L’ho contattata, ho fatto una visita all'Ospedale Careggi, presso la sua equipe, e lì si è deciso di procedere con il test genetico”. In effetti, la XLH, nota anche come rachitismo ipofosfatemico legato all'X, è dovuta a mutazioni nel gene PHEX, responsabile della produzione di una proteina che si ritiene sia coinvolta nella mineralizzazione delle ossa e della dentina e nel riassorbimento renale del fosfato. Per questo motivo, le manifestazioni principali della malattia comprendono rachitismo, alterazioni scheletriche, deformità a carico degli arti inferiori, dolori ossei e tendinei, ritardo nella crescita, bassa statura e problemi dentali.
“Dolori alle ossa ne abbiamo tanti, in famiglia, a causa della malattia: io, che vado per i 40, è da qualche anno che ho forti dolori alla schiena e alle ginocchia”, spiega Chiara. “Crescendo, alle gambe ho avuto il problema inverso rispetto a quello che presenta il resto dei miei familiari affetti da XLH: come manifestazione della malattia, loro hanno il varismo (nel caso degli arti inferiori, deformità che porta le ginocchia ad allontanarsi l'una dall'altra) mentre io, all'opposto, ho avuto il valgismo. Per lungo tempo, sono andata avanti solo portando scarpe e plantari ortopedici, oltre a stecche ortopediche da tenere per tutta la notte: sono aste di ferro che vanno dall’anca alla caviglia, sono fissate alle gambe con due stringhe di velcro e hanno delle fasce elastiche che vengono strette fortemente all'altezza del ginocchio, racchiudendolo. Questo fino a quando non ho trovato un primario competente in materia, che appena mi ha visitato ha capito che dovevo essere operata. Ho subìto un intervento in cui mi sono state inserite delle placche interne alle ginocchia, in modo tale che crescendo si raddrizzassero le gambe. Dato che l'operazione è stata eseguita troppo tardi, quando ero già entrata in fase di sviluppo, il risultato non è stato perfetto. Se i medici fossero intervenuti prima, a quest’ora avrei le gambe perfettamente dritte. Le placche le ho tenute per 8 anni, poi ho dovuto rimuoverle perché mi provocavano dolori insopportabili alle ginocchia”.
“La terapia farmacologica ho potuto iniziarla soltanto dopo aver ricevuto la diagnosi definitiva di XLH, nel periodo in cui ero incinta del mio secondo figlio, Luca, che è nato sano”, prosegue Chiara. “Da quel momento in poi, ho seguito un trattamento con calcitriolo (vitamina D attiva). Purtroppo, anche questo mi ha dato problemi: l’ho dovuto sospendere perché mi causava dolorose coliche renali”. La terapia tradizionale per la XLH si basa sull'assunzione di vitamina D attiva e sali di inorganici di fosfato, e comporta un attento monitoraggio dei pazienti allo scopo di prevenirne gli effetti collaterali, soprattutto ipercalciuria (anomala presenza di calcio nelle urine) e nefrocalcinosi (eccesso di calcio depositato nei reni). “In famiglia abbiamo sempre dovuto tenere sotto controllo l’assunzione di calcio, in quanto siamo sempre stati soggetti ai calcoli renali”, continua la donna. “Io, ad esempio, ho avuto episodi di calcoli e coliche renali dai 25 anni in poi. Con i medicinali che prendiamo, chiaramente, il problema è ancora maggiore”.
Diversamente da Chiara, i suoi due figli affetti da XLH, essendo stati diagnosticati precocemente, hanno potuto iniziare la terapia fin da piccoli. “Francesco, il più grande - spiega la madre - prende 5 volte al giorno una soluzione preparata in farmacia a base di fosfati inorganici e acqua distillata, più due pastiglie al giorno di calcitriolo. Paolo, che ha soltanto 2 anni, prende farmaci in gocce: alfacalcidolo e fosfati. Fortunatamente, su Francesco la terapia è riuscita a fare effetto. Abbiamo prevenuto il varismo, che è lievemente presente su una sola gamba e che, con la crescita, sta migliorando. Grazie al trattamento, siamo riusciti ad evitare la necessità di interventi chirurgici correttivi, la cosa che a me premeva di più, perché so cosa una persona deve patire tra l'operazione e la riabilitazione. Da fuori, vedendo Francesco, una persona non si accorge del fatto che abbia il rachitismo e non immagina le tante difficoltà legate alla malattia, perché mio figlio è solo un po’ più basso dei suoi coetanei. Per quanto riguarda Paolo, invece, è ancora troppo presto per giudicare gli effetti del trattamento”.
“L'aspetto negativo è che i miei figli, per via della terapia, sono costretti a sottoporsi a continue visite”, prosegue la donna. “Francesco fa delle ecografie addominali complete almeno una volta all’anno, per tenere sotto controllo la formazione di calcoli renali. Il piccolo, invece, è in costante monitoraggio perché ha i valori del paratormone che si alzano di colpo, pur mantenendo costante il trattamento. Una cosa che non sapevo, e che mi ha spiegato la professoressa Giovanna Weber (Università Vita-Salute San Raffaele, Milano), è che questi farmaci provocano molta stanchezza. Questo aspetto l’ho scoperto a dicembre scorso: la scuola, infatti, ci ha segnalato che Francesco mostrava problemi di disgrafia e, parlandone con la prof.ssa Weber, è venuto fuori che la cosa poteva essere legata alla sonnolenza causata dai medicinali. In effetti, Francesco sembra soffrire particolarmente questo effetto, e si stanca facilmente quando scrive o fa le sue cose”.
“Per quanto riguarda i bambini, gestire la terapia è un vero inferno, sia per loro che per noi genitori”, racconta Chiara. “Ad esempio, c'è il fatto che le medicine vanno prese anche di notte: io e mio marito, da 10 anni, praticamente non dormiamo più. Per ridurre lo stress, ci siamo adattati facendo in modo che Francesco e Paolo assumano i farmaci agli stessi orari. La sera, mettiamo a letto i bambini, sbrighiamo le ultime faccende e ci prepariamo per la notte, dopodiché è già ora di dar loro l'ultima dose quotidiana: di conseguenza, ogni giorno, noi genitori, non andiamo a dormire prima delle 2-3 di notte. Poi, per il dosaggio mattutino, c'è il problema della scuola. Francesco, da quando è alle elementari, i farmaci li prende da solo. Io e mio marito prepariamo le monodosi giornaliere di fosfati mettendo in siringhette senza ago la soluzione orale, che il bambino, poi, assume a scuola (naturalmente, vanno fatte tutte le autorizzazioni del caso: dobbiamo aspettare che la scuola ci dia il benestare per potergli far assumere la terapia). Da piccolo, Francesco frequentava un asilo privato: lì potevamo lasciare presso l'istituto il contenitore con la soluzione già pronta, con gli insegnanti che riempivano la siringhetta e somministravano la medicina al bambino (tutto ciò, ovviamente, solo dopo averli esonerati da tutte le responsabilità del caso). Con Paolo, invece, la situazione è più complessa perché la sua terapia è in gocce: per somministrargliela, dovremo entrare a scuola noi genitori o vedere di trovare un punto di incontro con gli insegnanti, per fare in modo che venga somministrata da loro. Non so se all’asilo comunale quest'ultima ipotesi sia fattibile, dipenderà tutto dall’elasticità della direzione didattica”.
Oltre a dover necessariamente convivere con i sintomi della XLH e con le problematiche legate alla gestione della terapia, le persone che sono affette da questa rara forma di rachitismo si trovano a far fronte ad una lunga serie di difficoltà, legate, in primis, al fatto che la patologia sia scarsamente conosciuta. “Molti dottori non sanno cosa sia l'ipofosfatemia legata all'X, l’ho provato sulla mia pelle. Ad esempio - ricorda Chiara - sono stata io a spiegare al medico di base di mio papà che la malattia riguarda il metabolismo e che, per poterla diagnosticare, magari sarebbe stato utile sentire anche un endocrinologo esperto. Il problema è proprio questo: non tutti i medici sono a conoscenza della XLH e tantomeno delle conseguenze che può comportare. Mi è capitato di fare delle visite all'Ospedale San Paolo di Milano e, al momento del controllo odontoiatrico, parlando di esenzione, ho spiegato che avevo una malattia rara, il rachitismo ipofosfatemico legato all'X, e mi hanno risposto che il rachitismo non c’entra nulla con i denti. Ancora una volta, sono stata io a dover chiarire che le cose, in realtà, stanno esattamente al contrario: a causa della malattia, io vado continuamente dal dentista perché i miei denti sono sempre stati gialli e si sgretolano, anche quelli già curati. I denti dei miei figli, invece, stanno meglio solo grazie alla terapia: più bianchi e robusti rispetto ai miei. Nonostante ciò, quando Francesco era più piccolo, e aveva ancora i denti da latte, soffriva ripetutamente di ascessi, che ora, per fortuna, sono diminuiti”.
“In generale, non c'è consapevolezza della malattia”, continua Chiara. “Se consideriamo l'invalidità, ad esempio, in famiglia facciamo continue visite di revisione e, addirittura, per quanto riguarda Francesco, l'intervallo tra una visita e l'altra è diventato sempre più breve: siamo passati da tre anni a due, poi a un anno e mezzo; infine, se non avessi reclamato, la prossima visita sarebbe stata dopo 6 mesi. Durante l'ultima revisione, infatti, ho chiesto ai dottori quali miglioramenti sperassero di vedere accorciando i tempi, spiegando loro che la XLH è una malattia genetica e non guarisce per incanto, e che gli effetti delle terapie si vedono solo a lungo termine: a questo punto, allora, mi hanno detto che la successiva visita di Francesco sarebbero tornati a farla dopo 5 anni! Situazioni simili ti fanno capire che poche persone conoscono questa patologia, e che sono ancora meno i medici esperti”.
“In Italia, ai pazienti affetti da XLH mancano punti di riferimento”, conclude Chiara. “Io non mi vergogno della mia malattia e cerco continuamente di passare informazioni utili al mio medico di base, alla mia ginecologa e a tutti i dottori che incontro, sperando che in questo modo, nel mio piccolo, io possa essere d'aiuto alle persone che si trovano nella mia stessa condizione, persone che contano di trovare sul loro cammino medici e specialisti che comprendano la loro patologia”.
Segui la campagna di sensibilizzazione di O.Ma.R. sull'ipofosfatemia legata all'X: nella prossima intervista, Rexhep Uka racconterà il suo viaggio dall'Albania in Italia alla ricerca di una diagnosi.
Partecipa all'iniziativa: condividi questo articolo sui social con l'hashtag #rachitismoXLH.
CLICCA QUI per conoscere tutte le interviste realizzate nell'ambito della campagna.