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Giampiero Baroncelli

Il dr. Giampiero Baroncelli (Pisa): “L'approvazione del farmaco burosumab e la sua somministrazione a domicilio hanno migliorato nettamente la vita dei pazienti”

Pisa – Malformazioni agli arti inferiori, dolori osteoarticolari, bassa statura, problemi dentari e numerosi interventi chirurgici ortopedici: è ciò che comporta una rara forma genetica di rachitismo, l’ipofosfatemia legata all'X (XLH). Uno dei principali centri di riferimento italiani si trova a Pisa, dove è in cura il maggior numero di pazienti affetti da questa patologia: circa cinquanta, tra adulti e bambini, provenienti anche da altre Regioni. Fra loro, come specifica il dr. Giampiero Baroncelli, dell'Unità Operativa di Pediatria dell'Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, una ventina ricevono il trattamento convenzionale, mentre nove, attualmente, sono in terapia con un farmaco innovativo chiamato burosumab.

Dottor Baroncelli, qual è la causa della malattia?

“L’ipofosfatemia legata all’X, nota anche come rachitismo ipofosfatemico legato all'X, è dovuta a una mutazione del gene PHEX, il quale regola la produzione dell'ormone FGF23, che ha il compito di calibrare l'eliminazione renale del fosfato e la sintesi di 1,25-diidrossivitamina D, l'ormone vero e proprio che deriva dalla vitamina D. Ciò comporta un'eccessiva produzione di FGF23 che determina, quindi, una perdita renale di fosfato e una diminuzione della fosfatemia nel sangue. Ne consegue un'ipofosfatemia importante che è la causa principale delle lesioni rachitiche a livello delle cartilagini di crescita, dove il fosfato è uno dei principali regolatori insieme al calcio”.

Come si può distinguere l'XLH dal classico rachitismo carenziale?

“Questi bambini presentano una forma di rachitismo che è sovrapponibile dal punto di vista del fenotipo al rachitismo da carenza di vitamina D, ma che non è possibile correggere con la terapia standard a base di vitamina D e calcio. Molti di questi pazienti vengono identificati proprio perché non rispondono alla terapia: una volta, infatti, venivano inquadrati come affetti da rachitismo vitamina D-resistente. Le metodiche di diagnosi di XLH devono essere affinate: se la mutazione è presente nei familiari, è semplice identificare la malattia fin dalla nascita, ma così non avviene nei casi sporadici, dovuti a mutazioni de novo, che sono circa il 30-40% del totale, proprio perché nessun familiare mostra segni che possono far sospettare la XLH. La diagnosi precoce è fondamentale: stiamo lavorando molto su quest'aspetto perché prima si inizia la terapia, meglio è; più si aspetta, più i danni saranno difficilmente recuperabili, qualora lo siano”.

A quali danni vanno incontro i pazienti?

“Hanno delle malformazioni agli arti inferiori, che sono più corti, e una bassa statura di grado importante che compromette molto la loro vita di relazione. Oltre a ciò, hanno delle alterazioni dentarie, perché anche la dentina risente dell'ipofosfatemia. Questi pazienti mostrano quindi frequenti ascessi gengivali su denti apparentemente sani, che non hanno subito né traumi né carie. I denti più colpiti risultano gli incisivi e i canini, che normalmente sono meno coinvolti nella masticazione. Anche i giovani adulti possono diventare precocemente edentuli, quindi il danno, oltre ad essere estetico, riguarda anche la masticazione. Spesso si presentano delle notevoli complicanze a carico dell'osso e del muscolo, con difficoltà di movimento: i bambini non riescono a correre, non possono giocare con gli amici. Si tratta di una malattia che ha un'ingravescenza progressiva, i cui danni si accumulano negli anni riducendo sensibilmente la qualità di vita già in età giovane-adulta”.

Cosa possono fare per loro i medici?

“Molti pazienti vanno incontro a numerosi interventi chirurgici correttivi durante l'infanzia e l'adolescenza, con l'applicazione di protesi di ginocchio e di anca in età relativamente giovane, perché la terapia convenzionale non riesce a risolvere i loro problemi metabolici. Per quarant'anni abbiamo utilizzato un trattamento a base di sali inorganici di fosfato, che tra l'altro non sono disponibili nella farmacopea nazionale: per i più piccoli dobbiamo quindi ricorrere a preparazioni galeniche a base di questi sali, da assumere dalle 4 alle 6 volte nell'arco della giornata, mescolate al latte, ai succhi di frutta o ad altri alimenti. Hanno un gusto terribile, è come bere acqua salata, quindi la compliance ne risente molto. Nei ragazzini più grandi, invece, utilizziamo le compresse, dure o effervescenti, che dobbiamo reperire all'estero perché non sono mai state importate in Italia. Oltre a questi sali, vengono solitamente somministrati metaboliti attivi della vitamina D, il calcitriolo o l'alfacalcidolo, che favoriscono l'assorbimento del fosfato a livello dell'intestino. Questa terapia, però, è inefficace nei casi moderati e gravi: non si riesce mai a normalizzare i livelli di fosfato nel sangue perché per farlo dovremmo somministrare un dosaggio di farmaci molto elevato, con il rischio concreto di seri effetti collaterali”.

Dalla fine del 2018, però, è stato messo in commercio un nuovo farmaco che ha risolto questo problema...

“Sì, è un anticorpo monoclonale che si chiama burosumab e ha la funzione di neutralizzare l'ormone FGF23 prodotto in eccesso dai pazienti con XLH: quindi non si tratta più di una terapia sintomatica come i sali di fosfato, ma eziologica. I primi studi pubblicati in questi due anni hanno mostrato che gli effetti clinici di questo farmaco sono significativamente migliori rispetto alla terapia convenzionale; burosumab viene somministrato per via sottocutanea due volte al mese, con ripercussioni positive anche sulla compliance. Dallo scorso anno, con l'avvento della pandemia e il conseguente lockdown, è stata attivata nella Regione Toscana la somministrazione domiciliare del burosumab, tramite un'agenzia privata sostenuta dalla ditta produttrice del farmaco. All'estero questo sistema è utilizzato da molti anni, mentre in Italia è ancora poco impiegato ma ha già dimostrato di essere in grado di cambiare davvero la vita dei pazienti e delle loro famiglie; i genitori non perdono giorni di lavoro per accompagnare i figli al centro di riferimento per fare la terapia ogni 14 giorni, e noi li vediamo solo per le visite e gli accertamenti di controllo, ogni tre mesi circa”.

Questa molecola, dunque, ha portato un miglioramento sensibile non solo dal punto di vista clinico, ma anche da quello della somministrazione.

“Esatto. Purtroppo, può essere somministrata solo ai bambini di almeno 1 anno di età e agli adolescenti con scheletro in crescita: questo significa che non appena il paziente compie 18 anni, dobbiamo sospendere la terapia a meno che non sia possibile continuare tramite l'uso compassionevole. L'anno scorso, però, la Commissione Europea ha approvato il suo utilizzo anche nel paziente adulto: in Italia la decisione dell'AIFA è attesa per il 2022, e spero vivamente che vada in questa direzione a beneficio dei pazienti”.

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