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Chirurgia

La patologia colpisce diversi organi ma la conseguenza è praticamente sempre la stessa: la necessità di ricorrere alla chirurgia. La testimonianza di Clotilde e Marina

Roma – Sofferenza, speranza, a volte rassegnazione. Tutti i percorsi di vita delle persone affette da una malattia rara sono in qualche modo simili, ma anche profondamente diversi. Non fa eccezione la sindrome di Marfan, una rara malattia genetica che colpisce il tessuto connettivo provocando sintomi di tipo cardiovascolare, polmonare, muscolo-scheletrico e oculare. A spiegare cosa voglia dire convivere con questa condizione sono due donne che fanno parte dell'Associazione Sindrome di Marfan. La malattia è la stessa, anche se non sembra. Ad essere stati maggiormente colpiti, infatti, sono due organi diversi: per Clotilde il cuore e per Marina gli occhi.

LA STORIA DI CLOTILDE: LA DISSECAZIONE DELL'AORTA E QUELLA CORSA VERSO L'OSPEDALE

“Il mio nome è Clotilde e il mio incontro con la malattia è avvenuto a 13 anni, ossia 35 anni fa. Non vedevo più da un occhio e durante la visita oculistica il medico, avendo visto che ero già molto alta e con le dita molto lunghe, sospettò la presenza della malattia. Da allora è iniziata la mia vita da paziente. Il cristallino dell’occhio destro si era distaccato e quindi fui operata per rimuoverlo e cominciai ad usare una lente a contatto per recuperare qualche grado di vista. Da quel momento in poi, oltre ai costanti controlli oculistici, cominciarono anche dei regolari controlli annuali dal cardiologo: la mia aorta, infatti, si sarebbe potuta allargare da un momento all’altro, cosa che avvenne all’età di 24 anni. Il cardiologo mi disse che era arrivato il momento di sentire un cardiochirurgo, che sostituì la mia radice dell’aorta e la valvola aortica con una valvola meccanica. Da quel giorno cominciò anche la mia convivenza con gli anticoagulanti e con i relativi controlli mensili per la coagulazione del sangue, fino all’età di 39 anni, quando una parte dell’aorta addominale si dilatò al punto da dover programmare un secondo intervento".

"Nel 2015, dopo 4 anni dall’intervento all’aorta addominale, ho cominciato ad avere ricorrenti episodi di fibrillazione, per cui sono stata sottoposta a diverse cardioversioni [la cardioversione è una procedura che si esegue per ristabilire il normale ritmo cardiaco, N.d.R.] e si è deciso di dover sostituire a settembre la valvola mitrale, che non chiudeva più molto bene. Purtroppo, il 3 agosto, ho avuto una dissecazione improvvisa dell'intera aorta. Ho avvertito un dolore molto forte al centro della schiena, come se mi avessero dato un calcio, e poi una morsa di dolore attorno alla bocca e alla mandibola. Per mia fortuna avevo seguito vari incontri organizzati dall’associazione e dal Centro Marfan di Tor Vergata, in cui sono seguita, dove più volte avevano detto che la dissecazione dell’aorta può arrivare all’improvviso, avevano descritto la tipologia di dolore e soprattutto ci avevano spiegato che una dissecazione si può individuare soltanto con una TAC, e che bisognava recarsi immediatamente in ospedale".

"Io ero sola in casa ma ho telefonato alla mia vicina, che ha chiamato immediatamente il 118. L’ambulanza mi ha portato nell’ospedale più vicino, dove però non sapevano cosa fare: volevano farmi un elettrocardiogramma, mentre io ero letteralmente piegata in due dal dolore atroce, ormai diffusosi dalla schiena anche al torace. Purtroppo il rischio di trovare dei medici non preparati, che non conoscano o non sappiano riconoscere la nostra patologia, spesso può causare danni molto gravi, compresa la morte. Non dovremmo considerare 'fortuna' il fatto che io fossi stata informata dai medici e dall’associazione delle problematiche derivanti dalla nostra patologia, non dovrebbe essere 'sfortuna' incontrare dei medici che non sanno riconoscere dei sintomi che sono tanto frequenti nei pazienti con questa malattia. Ad oggi l’unica causa di morte per la sindrome di Marfan è la rottura dell’aorta e l’unica speranza di vita è che venga presa per tempo. Perciò, a quel punto, ho deciso di lasciare il pronto soccorso e mi sono fatta accompagnare da un’amica, che mi aveva raggiunto nel frattempo, all’ospedale di Tor Vergata, dove c’è una Cardiochirurgia e dove soprattutto è presente anche il Centro Marfan di Roma, dove sapevo che avrei trovato dei medici competenti".

"Una volta arrivata lì ho perso i sensi perché il dolore era troppo forte, ma posso dire che ormai ero in mani sicure e loro hanno saputo come trattare la mia dissecazione. Ho passato 11 giorni in terapia intensiva, immobile in un letto per tenere la pressione il più possibile bassa e per cercare di far cicatrizzare la lacerazione della mia aorta. Dopo due anni ho eseguito un quarto intervento per sostituire l’arco aortico lacerato durante la dissecazione ed ora sono in attesa di fare il quinto intervento per poter riparare il resto dell’aorta che si è danneggiato sempre in quel fatidico 3 agosto. Per il resto convivo con la vista da un solo occhio perché il destro, dopo l’intervento a 13 anni, non ha mai riacquistato la vista se non per due gradi. Ho dei dolori intermittenti all’anca sinistra per via della cartilagine consumata e delle ossa malformate e non posso stare ferma in piedi troppo a lungo per il sopraggiungere di dolori alla base della colonna vertebrale”.

LA STORIA DI MARINA: I DISTACCHI DI RETINA E LA PAURA DI PERDERE LA VISTA

“Mi chiamo Marina e conosco la sindrome di Marfan dalla nascita, perché l'ho ereditata da mio padre. Il percorso di una persona affetta da questa patologia è senz'altro in salita: nel mio caso specifico sono stati gli occhi a subire le conseguenze peggiori, e attualmente sono una persona ipovedente monocola. Il mio primo distacco di retina è avvenuto all’età di 17 anni, e l’evento fu particolarmente drammatico, soprattutto considerando il fatto che si è verificato durante l’esame di maturità. L’impresa più ardua fu trovare un medico all’altezza: così, come succede spesso in questi casi, ha avuto inizio un pellegrinaggio infinito fra i vari specialisti. Questo significa ore interminabili di attesa, stress emotivo e naturalmente dispendio economico. La mia grande fortuna è stata trovare il miglior medico in assoluto in tema di distacco di retina, grazie al suggerimento di una persona che ne conosceva il talento".

"Ha avuto così inizio il mio calvario: nell’arco di un anno ho subito nove interventi. All’inizio erano poco invasivi, ma successivamente, visti gli esiti negativi, sono diventati sempre più lunghi, complessi ed estremamente dolorosi. Un episodio che non dimenticherò mai è legato alla mia quinta operazione che fu fissato il giorno del mio diciottesimo compleanno. Ai medici non dissi che ero nata in quel giorno, ma verso metà mattinata, l’équipe di sala operatoria venne a comunicarmi che il professore, avendo letto sul libretto la mia data di nascita, aveva deciso di non operarmi proprio in quel giorno. Sembrerà una stupidaggine, ma per me è stato il regalo più bello che qualcuno mi abbia fatto, un gesto di delicatezza che non dimenticherò mai. Così venni operata il giorno successivo: potrebbe sembrare una conseguenza scontata, se non fosse per il fatto che il giorno dopo la clinica avrebbe dovuto essere chiusa perché era il mese di agosto. Per rimandare il mio intervento, il professore chiese alla clinica di rimanere aperta e a tutte le persone necessarie in sala operatoria di rimandare le loro vacanze per il tempo necessario”.

"Purtroppo la situazione del mio occhio destro era davvero drammatica e così gli interventi sono andati avanti portandomi allo sfinimento. Così, nonostante il contrario parere medico, mi sono rifiutata di sottopormi ad altri tentativi. Ormai l’occhio aveva perso anche la luce e poteva dichiararsi tecnicamente 'spento'. A quel punto ho dovuto affrontare due problemi: il primo era di natura economica, in quanto gli interventi eseguiti erano tutti in una struttura privata. Nonostante il professore mi abbia fatto pagare soltanto la prima operazione, procedendo con le altre in modo del tutto gratuito, la struttura era comunque onerosa, e questo ha comportato l’urgente necessità da parte mia di trovare un lavoro. Così ho dovuto lasciare l’Università: una scelta dolorosa, ma necessaria. Inoltre, ho dovuto affrontare l’idea di aver perso per sempre l’occhio destro. Era qualcosa di cui non riuscivo a capacitarmi: continuavo a pensare che da quell’occhio non avrei mai più visto la luce del sole. Oltretutto, la perdita di un occhio comporta una serie di riadattamenti necessari: si perde il senso della tridimensionalità, dell’equilibrio, delle distanze, e quindi bisogna imparare a farne a meno”.

Con il tempo, poi, ho compreso che avrei pagato un prezzo sempre più alto e che le rinunce avrebbero fatto costantemente parte della mia vita. Uno dei miei sogni, infatti, era quello di diventare un’arredatrice d’interni, progetto che, insieme a quello universitario, ho dovuto abbandonare. Dopo qualche anno le cose si sono ulteriormente complicate: infatti anche l’occhio sinistro ha subito il distacco della retina, e affrontare questa situazione è stato molto più difficile rispetto alla volta precedente. Prima pensavo: 'se perdo un occhio, ho l’altro', ma ora il discorso era estremamente diverso. Se l’esito degli interventi fosse andato come la prima volta, il mio futuro sarebbe stato la cecità. Così, a 24 anni, è ricominciato il mio percorso operatorio: ora ne ho 46 e non è ancora finito. Ho smesso di contare gli interventi tanto tempo fa. Fortunatamente, però, in questo caso è stato possibile mantenere un residuo visivo che ancora oggi mi regala una certa autonomia”.

“I segmenti di vita passati nelle sale d’attesa, prima e dopo gli interventi, ormai non è più possibile neanche calcolarli. Gestire lo stress emotivo che comporta il dover essere operata di nuovo, per andare a recuperare ogni volta una diversa complicazione, è diventato un lavoro a tempo pieno, ma necessario se non vuoi impazzire o morire di paura. Penso sia proprio questa la parte più difficile per una persona che deve affrontare una patologia, insieme all’altro 'mostro' chiamato ignoranza. La scuola per me è stata un vero trauma, soprattutto perché negli anni Ottanta l’assistenza di sostegno come la conosciamo oggi era un miraggio. E proprio in questo contesto ho capito il pieno significato del termine solitudine: si cresce in fretta quando si devono affrontare certi percorsi di vita. Non ho avuto comprensione da nessun insegnante. La mia stanchezza o la mia impossibilità di vedere la lavagna erano considerati svogliatezza: era più facile etichettarmi in questi termini. Se poi all’indifferenza generale sommiamo il bullismo da parte dei compagni, abbiamo un quadro chiaro della situazione. Crescendo ho compreso meglio il perché delle mie difficoltà e maturando ho potuto prendere in mano la situazione e organizzarmi in modo adeguato. Anche la realtà lavorativa non è facile, ma oggi ho sviluppato gli strumenti adatti per ‘difendermi’. Una vita, insomma, che va vissuta a denti stretti, senza mai abbassare la guardia; una situazione, però, che mi ha insegnato molto, soprattutto a gioire per le piccole cose e a non dare nulla per scontato”.

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