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Pesante l’impatto sulle famiglie, ma grande ottimismo per il futuro, anche grazie alla prospettiva imminente della terapia genica

“Bisogna informarsi il più possibile perché solo informandosi la talassemia fa meno paura”. Sono alcune parole che Ramona, Andrea, Guido, Sabrina, Lorenza, Giusi, Michele e Mattia hanno condiviso con noi in occasione dell’International Thalassemia Day 2019. Sono mamme e papà di bambini e ragazzi con beta talassemia, ma anche talassemici adulti, che vivono questa condizione in prima persona. La beta talassemia è una patologia che impone continue trasfusioni di sangue, terapie e controlli costanti. Un impatto non indifferente sui vissuti quotidiani, ma una malattia per cui si stanno aprendo nuovi scenari terapeutici per il futuro. Attesa da decenni, la terapia genica ha ricevuto il parere favorevole del Comitato per i Medicinali per Uso Umano dell'EMA e potrebbe presto essere disponibile anche in Italia: ha la potenzialità, infatti, di curare definitivamente la loro malattia.

La giornata internazionale della talassemia è stata per Osservatorio Malattie Rare una preziosa occasione per incontrare pazienti e familiari e comprendere e far comprendere come la beta talassemia, che colpisce circa 6.500 persone in Italia, condiziona la vita di chi ne è affetto. “Mio figlio perde circa 20 giorni di scuola all’anno per le trasfusioni – spiega Guido, papà di un ragazzo talassemico di 17 anni – ed è gravoso anche per noi genitori che dobbiamo assentarci dal lavoro, ma se ti organizzi si può fare”. “C’è chi ha martedì la palestra…tu il martedì sai che hai la trasfusione”, scherza Ramona, mamma di Carlo, 3 anni.

La talassemia ha un impatto considerevole sulle vite di quanti ne sono affetti. Lo conferma anche una recente indagine (che potete consultare integralmente qui) realizzata grazie alla collaborazione tra UNITED Onlus (Federazione Nazionale delle Associazioni Thalassemia, Drepanocitosi e Anemie Rare) e bluebird bio.

La ricerca, che ha coinvolto 131 pazienti provenienti da 13 regioni, ha infatti rilevato che per l'82% del campione la malattia ha un impatto significativo sulla vita quotidiana, percentuale che raggiunge il 93% tra gli intervistati maschi. Questo risultato è confermato anche dal numero di giorni trascorsi in ospedale in un anno a causa di trasfusioni e altri controlli, che per il 42% degli intervistati sono stati più di 30 nel corso del 2018 e per il 32% tra i 21 e i 30 giorni. Oltre alle visite mediche e alle trasfusioni, ci sono tutti gli altri obblighi legati alla gestione della malattia, come, ad esempio, l'assunzione di altre cure, le procedure burocratiche e gli adempimenti amministrativi. Infatti, per oltre la metà dei pazienti (51%), tali aspetti richiedono da 1 a 3 giorni al mese. Questo onere si traduce direttamente in tempo sottratto alla vita familiare o di relazione (come dichiarato dal 56% dei pazienti), a sport, tempo libero e vacanze (51%) e naturalmente ad istruzione o lavoro (43%).

Mattia, 26 anni, ha riferito di aver avuto un percorso scolastico normale, nonostante una media di 25 assenze annue. “Dopo gli studi superiori ho fatto il servizio civile, ora sono iscritto all’accademia delle belle arti. I limiti che ho sentito più gravosi sono stati quelli fisici. Mi chiamavano “tappetto”, per via della bassa statura. Non ho potuto fare molto sport, mi affaticavo troppo. Faccio le infusioni da quando avevo 9 mesi, non saprei immaginare la mia vita diversamente, ma non mi è mai piaciuto parlare della mia malattia e anche adesso tendo a non farlo se non strettamente necessario, non interferisce con la mia vita sociale”.

Michele, 36 anni, è in condizioni fisiche ottime. “Non ho mai avuto difficoltà a gestire la malattia e faccio le trasfusioni da quando avevo 9 mesi. Anche la terapia chelante (necessaria per evitare gli accumuli di ferro potenzialmente tossici) è sempre stata efficace. Ora assumo una terapia orale e quindi non me ne accorgo quasi. A Ferrara sono curato in maniera ottimale, medici e infermieri fanno il possibile per renderci la vita più facile. La malattia mi ha imposto qualche limite… avrei voluto un lavoro che mi portasse continuamente in giro per il mondo, questo non è possibile. Ho però sempre lavorato regolarmente, vicino a casa. Ho una moglie e due bambine magnifiche…loro sono tutto per me. Spero nelle nuove terapie proprio perché potrebbero darmi la possibilità di una vita più lunga e in salute, da poter passare insieme a loro!”

Non tutti i talassemici però godono di uno stato generale di buona salute. Giusi ha 38 anni, è siciliana. Ha bisogno delle trasfusioni da quando aveva 7 mesi e purtroppo qualche anno fa ha contratto il virus HCV, il virus dell’epatite C, proprio attraverso il sangue trasfuso. Il virus è stato negativizzato grazie alle terapie effettuate, ma le ha lasciato un gravissimo danno epatico, tant’è che ora è in attesa di un trapianto. Oggi fa due trasfusioni al mese e gestisce serenamente la terapia, ma i suoi progetti futuri dipendono dal trapianto di fegato. “Non ho figli, ma la mia vita è comunque piena di affetti. Spero che tutto vada per il meglio perché voglio godermela. Mi auguro di cuore che tutti i talassemici italiani possano essere curati al meglio, perché c’è ancora molta, troppa disparità tra gli ospedali italiani. E spero che la terapia genica possa essere il futuro, soprattutto per i più giovani”.

Il futuro è un tema importante, specie per chi ha un figlio con una malattia cronica, dipendente da una terapia ad alto impatto come quella trasfusionale. Ma la speranza nella terapia genica e nel progresso scientifico è davvero grande, come hanno testimoniato i protagonisti di queste interviste, realizzate grazie alla collaborazione di United Onlus e al contributo incondizionato di bluebird bio. “Fare informazione sulla talassemia è oggi quanto mai importante”, commenta Valentino Orlandi, Past President di United Onlus. “Ci sono nuovi casi sia dovuti ai flussi migratori che al fatto che la patologia si può trattare e non tutte le coppie a rischio si sottopongono a test prenatali. Fortunatamente molte strutture sono ben organizzate e la gran parte dei pazienti riceve una assistenza di buon livello. Non bisogna però mai sottovalutare il coinvolgimento di tutta la famiglia nel percorso di cura della persona malata, sia per il tempo da dedicare che per l’impatto psicologico per genitori, fratelli e sorelle, amici. Sono molto contento di riscontrare che il lavoro fatto da United sia apprezzato da moltissimi pazienti che hanno partecipato all’indagine [69%, N.d.R.], una bella soddisfazione al termine del mio mandato. Ora il testimone passa al Presidente Tony Saccà e con lui le nuove sfide che vengono dalla ricerca, la terapia genica prima di tutto”.

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