Un articolo comparso pochi giorni fa sulla rivista Haematologica e firmato dal prof. Vasilios Berdoukas e il prof John Wood delle divisioni di oncologia e cardiologia del Children’s Hospital of Los Angeles ha pubblicamente riconosciuto un grande merito a un’eccellenza della ricerca scientifica italiana, la rete MIOT - Myocardial Iron Overload in Talassemia coordinata dalla Fondazione Gabriele Monasterio CNR-Regione Toscana. Secondo i due esperti è grazie a questo modello di ricerca e organizzazione che le cure per i talassemici potrebbero vincere nuove sfide terapeutiche, fino ad un risultato eccezionale: rendere la morte per cardiomiopatia legata agli accumuli di ferro nel cuore solo un ricordo, una questione di interesse storico. Per le persone trasfusione dipendenti da 40 anni sono disponibili terapie chelanti, capaci cioè di ridurre gli accumuli di ferro nel cuore. Nonostante questo la cardiomiopatia da ferro è la causa più comune di morte, anche se negli ultimi 10 anni il fenomeno su è fortemente ridotto. Il merito va attribuito sia ai nuovi farmaci chelanti sia della possibilità di riconoscere precocemente gli accumuli di ferro grazie alla risonanza magnetica. Tra le tecniche più avanzate di risonanza magnetica c’è la tecnologia T2* messa a punto dalla Fondazione Monasterio con il contributo di Chiesi Farmaceutici, GE Healthcare e Bayer Schering e l’appoggio della S.I.T.E. (Società Italiana Talassemia ed Emoglobinopatie). Nell’articolo i due esperti infatti fanno specifico riferimento allo studio pubblicato in precedenza dalla dottoressa Alessia Pepe della Fondazione Monasterio e dagli ematologi della rete MIOT elogiando i risultati ottenuti nella valutazione comparata di efficacia di diverse terapie chelanti. L’ampio studio multicentrico comparava l’efficacia dei 3 chelanti disponibili - deferasirox, desferrioxamine o deferiprone – dimostrando la maggiore efficacia di questo ultimo.
“Ma la grande novità di questo lavoro – dicono - è che il MIOT ha anche creato una rete di centri talassemia in tutta Italia che hanno deciso di standardizzare e condividere le proprie valutazioni di risonanza magnetica cardiaca. Una rete estremamente potente che permetterà di eseguire studi osservazionali con relativa facilità”. I due ricercatori fanno anche notare alcun limiti dello studio, ad esempio relativi alla durata della terapia sperimentate ma, indipendentemente dalle piccole questioni sollevate, concludono affermando che “i risultati sono significativi e degni di attenzione. Si tratta infatti della prima pubblicazione che suggerisce una funzione di protezione cardiaca del deferiprone e questo studio è venuto dal gruppo che ha sviluppato la metodologia per la valutazione del carico cardiaco di ferro utilizzando la tecnica T2*”.
Come spiegano poi i due esperti, citando numerosi studi, questo risultato è successivamente stato avvalorato dal fatto che vari studi successivi hanno dimostrato un esito simile. In uno studio pilota randomizzato il deferiprone è stato superiore a desferrioxamine nella rimozione del ferro dal cuore e ha mostrato un significativo miglioramento della frazione di eiezione ventricolare sinistra. Un altro ampio studio italiano ha dimostrato che non c’erano stati nuovi eventi cardiaci in 157 pazienti passati al deferiprone rispetto a 57 eventi cardiaci e 15 morti correlate ad eventi cardiaci avvenute in 359 pazienti che avevano continuato a desferrioxamine. Uno studio svolto ad Atene ha dato risultati simili e mostrato la superiorità del deferiprone per agli accumuli di ferro cardiaco.
“Le sfide che abbiamo di fronte oggi – concludono - sono dunque capire quando vada iniziata la terapia chelante al fine di mantenere nei bambini livelli normali di ferro e in modo da ridurre l'incidenza delle malattie cardiache, capire quanto si possa mantenere basso il ferro corporeo senza effetti collaterale e sviluppare farmaci con effetti collaterali sempre minori valutando anche l’efficacia e la sicurezza di combinazioni di chelanti diversi, come deferasirox e deferiprone. Visto che studi clinici randomizzati sono onerosi e difficili da eseguire – concludono Berdoukas e Wood - le reti, come quella del MIOT, potrebbero essere un’ottima via per fornire queste informazioni. Grazie al grande numero di pazienti inclusi nel suo database la rete MIOT si trova infatti in una situazione ideale per poter dare delle risposte chiare a queste esigenze. La disponibilità in molti paesi di ben tre chelanti consente di poter fare scelte diverse secondo i risultati della risonanza magnetica e i follow-up dalla rete MIOT forniranno preziose indicazioni cliniche ai centri, anche a quelli che non sono dotati di risonanza magnetica”.