SIGU: “Prioritario adottare approcci di sequenziamento genomico ad ampio spettro, come WES e WGS. Fondamentali competenze genetiche e bioinformatiche, e sinergia tra genetista e specialista clinico”
Chi è ancora costretto a convivere con una patologia senza diagnosi, oltre ad affrontare le difficoltà fisiche legate alla malattia, deve sopportare anche l’incertezza e la frustrazione, un pendolo tra dolore e demoralizzazione. Alcuni aspettano anni per avere una risposta, altri semplicemente si adattano all’idea di non trovarla, avvertendo una sensazione di esclusione che intacca pesantemente il vissuto sociale. Nel frattempo, queste persone continuano ad effettuare esami diagnostici, e necessitano trattamenti che nella maggior parte dei casi sono solo sintomatici. Quando si tratta di patologie gravi necessitano ospedalizzazioni, spesso parliamo di disabilità gravi e conseguentemente di un notevole carico assistenziale che certamente pesa in termini di risorse sanitarie. Oggi però la medicina dispone dei mezzi tecnologici per raggiungere una diagnosi, può trasformarsi in una presa in carico appropriata ed efficiente. Infatti, i test genetici hanno sovvertito le prospettive di molte persone di ricevere una diagnosi ma il loro utilizzo deve essere “ragionato” e la scelta di quali eseguire per trovare le giuste risposte richiede solide competenze interdisciplinari.
In questo approfondimento, realizzato nell’ambito della partnership di Osservatorio Malattie Rare con SIGU, Società Italiana di Genetica Umana, facciamo il punto sulla tematica con Marco Tartaglia, Responsabile dell’Unità di Genetica Molecolare e Genomica Funzionale dell’IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, e Tommaso Pippucci, Referente della Struttura di Genomica Computazionale presso l’IRCCS Policlinico S. Orsola-Malpighi di Bologna.
SONO TANTE LE MALATTIE SENZA UNA DIAGNOSI
Vi sono malattie rare definite da tratti clinici ben distinguibili - detti patognomonici - che inducono nel medico un sospetto, da confermare tramite test “mirati” grazie a cui si può giungere con rapidità a una precisa diagnosi. Ma ne esistono molte altre con una carta d’identità perlopiù incompleta, per le quali non sono noti tratti patognomonici - che i medici chiamano anche “maniglie diagnostiche” - utili per capire la natura del problema: ad esempio, i deficit cognitivi associati a lievi dismorfismi non sono facilmente inquadrabili solo con l’approccio clinico. La diagnosi di queste malattie è dunque molto complessa e richiede di diventare dei “detective”.
“Sebbene oggi si conoscano più di otto mila malattie genetiche, non abbiamo ancora una stima attendibile di quante esse possano essere. Si ipotizza che ne manchino all’appello almeno cinque mila”, spiega il professor Marco Tartaglia, Responsabile dell’Unità di Genetica Molecolare e Genomica Funzionale dell’IRCCS Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, ricordando che per circa il 40% degli oltre ventimila geni che compongono il genoma umano non si conosce l’eventuale impatto funzionale e fenotipico delle diverse mutazioni che possono colpirli e nemmeno la loro potenziale associazione a manifestazioni di malattia. “L’incapacità di riconoscere clinicamente una malattia può però essere superata dalla rivoluzione genomica, con l’utilizzo di tecnologie di sequenziamento di ultima generazione - i test NGS - che permettono di identificare varianti nel genoma e, quindi, dimostrarne il ruolo causativo per arrivare a una conferma molecolare di malattia anche quando l’approccio clinico da solo non basta”.
I TEST GENETICI E COME USARLI
L’universo delle tecnologie NGS si compone di vari esami - sostanzialmente i pannelli genetici, più o meno estesi, il sequenziamento dell’intero esoma (la porzione codificante del genoma, WES) e dell’intero genoma (WGS) - definiti dalla diversa estensione in termine di copertura dell’informazione genetica del paziente. “Un pannello di solito risponde a un quesito clinico mirato e viene scelto per valutare un ventaglio ristretto di geni associati a una malattia nota”, precisa il dottor Tommaso Pippucci, Referente della Struttura di Genomica Computazionale presso l’IRCCS Policlinico S. Orsola-Malpighi di Bologna. “Con il WES o il WGS si passa a un livello di analisi più ampio. Il vantaggio di queste metodiche si ritrova nell’indagine di malattie clinicamente variabili e difficilmente inquadrabili, così come di quelle geneticamente eterogenee, che hanno alla loro base fino a diverse centinaia di geni di cui uno solo è mutato nel paziente. È qui che gioca un ruolo sempre più importante la componente computazionale dell’indagine genetica, fornendo una risposta diagnosticamente accurata a partire da una massa di informazioni ingestibili senza supporto bioinformatico”. Un esempio è costituito dalle malattie del neurosviluppo, tra cui l’autismo o l’epilessia, e una grande fetta di malattie rare pediatriche; queste ultime in modo particolare richiedono un approccio che tenga conto dell’informazione genetica riferita all’intera famiglia, da usare come un filtro per analizzare le tante varianti genetiche riscontrabili.
I test NGS - specie il sequenziamento dell’esoma - permettono di arrivare velocemente ad un’ipotesi diagnostica da confermare (o scartare) sulla base delle conoscenze cliniche acquisite e dell’associazione con le varianti di un dato gene. “Per l’interpretazione di questi test serve una solida competenza”, afferma Tartaglia. “Ed è richiesta la creazione di un asse di confronto tra la figura del genetista molecolare e del clinico esperto di patologia, in maniera tale da fornire un significato attendibile a quanto emerge dall’analisi delle varianti genomiche”.
I RISULTATI DI SIGNIFICATO INCERTO E LA FONDALE IMPORTANZA DELLA CONSULENZA GENETICA
Ciò assume ancor più rilevanza proprio in rapporto alle cosiddette varianti di significato incerto (VUS) o a quelle riscontrate in geni non ancora noti. Infatti, sulla base delle attuali conoscenze, quando si riscontrano VUS non è possibile farle rientrare in una classificazione precisa, cioè non si sa se siano espressione di patologia o se, invece, non siano correlate a essa. “In presenza di varianti di questo tipo si può arrivare a una diagnosi attraverso la conferma che una certa associazione si ritrovi in altri pazienti, un’operazione che però rischia di essere infruttuosa e può richiedere diversi anni nel caso di malattie rare”, prosegue Tartaglia. “Oppure si può provare a caratterizzare funzionalmente le VUS, con approcci in silico, in vitro o in vivo, così da dare conferma della patogenicità o escludere il loro ruolo causativo nella genesi della malattia”. Tale operazione implica un dialogo costante tra chi fa ricerca e chi eroga assistenza.
“La rivoluzione tecnologica ha trasformato la diagnosi genetica in qualcosa di profondamente multidisciplinare - con figure professionali come il bioinformatico che non esistevano fino a pochi anni fa nel settore - e ha assottigliato moltissimo il confine tra la pratica clinica e la ricerca”, precisa Pippucci, che aggiunge che quando un WES o WGS non sono conclusivi ma contengono, per esempio, una VUS o una mutazione in un gene non ancora noto, spiegare la situazione a un paziente o a una famiglia non è sempre semplice. “Perciò, è essenziale che un’informazione così complessa sia veicolata dalla consulenza genetica in fase iniziale, prima del test, e poi nella fase interpretativa del dato, quando è finalmente disponibile un referto. Ognuno di questi test deve essere ben inquadrato dentro un percorso medico, di cui il test stesso è l’ultima tappa. Spesso, anzi, è proprio l’incrocio tra dati genomici e clinici che ci permette di dare una risposta diagnostica, per cui l’interazione tra chi analizza i dati e chi fa la valutazione clinica deve essere potenziata”. Di fatto, la valutazione di un test genetico ha carattere multidisciplinare e deve esser eseguita in centri ad elevata esperienza, in cui le principali figure bio-mediche coinvolte mettono a sistema le loro competenze per fornire al paziente un responso completo ed esauriente.
LE COLLABORAZIONI NEL SEQUENZIAMENTO DELL’ESOMA E DEL GENOMA
“A meno di non avere un’ipotesi diagnostica chiara, nella stragrande maggioranza delle persone che non hanno ancora ottenuto una diagnosi è prioritario adottare approcci di sequenziamento genomico ad ampio spettro, come WES e WGS”, puntualizza Tartaglia. “Questo porta ad un accorciamento dei tempi di diagnosi e a una oculata gestione economica dei fondi del Servizio Sanitario Nazionale (SSN)”.
Ricevere una diagnosi in tempi brevi vuol dire non sottoporsi ad analisi di laboratorio non informative e migliorare la presa in carico della persona, seguendola nel tempo in maniera appropriata con un ovvio impatto in termini economici e soprattutto di salute. Una volta identificato un nuovo gene legato a una malattia lo si inserisce nel gruppo di quelli che formano il bersaglio analitico dei test, cioè l’insieme dei geni noti associati a malattia. D’altro canto, i dati genomici contenuti in WES e nel WGS apparentemente non informativi consentono tuttavia una rivalutazione nel tempo, tenendo conto delle nuove conoscenze acquisite (ad esempio l’identificazione di nuovi geni-malattia o nuove correlazioni genotipo-fenotipo); la stretta sinergia tra assistenza e ricerca offre così l’opportunità di individuare nuovi geni e nuove potenziali condizioni ad essi correlate.
“La periodica reinterpretazione dei dati di un esoma o di un genoma a distanza di mesi o di anni è cruciale per trovare le risposte di cui i pazienti hanno bisogno”, conclude Tartaglia. “E ciò non sarebbe possibile senza una vicendevole collaborazione tra gli ambiti della clinica e della ricerca, perché tutte le informazioni, sia molecolari che cliniche, sono decisive per ottimizzare la resa diagnostica di un test genomico”.
IL RUOLO DEL GENETISTA CLINICO
Il ruolo della genetica medica non si conclude però una volta ottenuta la diagnosi. Ciò che resta di fondamentale importanza per i pazienti e le loro famiglie è una presa in carico completa e globale. E se è vero che l’attività in ambito pediatrico ha come “Disease manager” del malato raro il pediatra ospedaliero/universitario, che è il coordinatore di tutte le fasi del percorso assistenziale (in accordo con tutti gli specialisti coinvolti e col pediatra di famiglia che ha il ruolo di “Case manager”), il passaggio all’età adulta, però, crea un grande vuoto. Sia il medico di famiglia che gli specialisti per adulti conoscono poco le malattie multisistemiche dell’infanzia e adolescenza e la loro evoluzione.
Per questo motivo è in corso una vivace discussione su quale figura possa rivestire il ruolo di “Disease manager” delle malattie multisistemiche genetiche in età adulta. La SIGU, Società Italiana di Genetica Umana, sostiene fortemente la centralità del ruolo del genetista clinico come coordinatore del percorso assistenziale presso i Centri di riferimento Malattie Rare. Questo specialista, che per cultura e formazione conosce bene la storia naturale delle malattie rare genetiche multisistemiche ad esordio in età pediatrica e in prospettiva le necessità e i bisogni del paziente in età adulta, potrebbe garantire, col team di specialisti, una continuità assistenziale ben strutturata e organizzata senza che la transizione continui ad essere come un nuovo esordio della malattia per il paziente e la sua famiglia.
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