Il caso dell’ipertensione arteriosa: perché le terapie funzionano solo in un terzo dei pazienti.
Di Giuseppe Bianchi, professore emerito presso l’Università “Vita Salute” San Raffaele di Milano e direttore scientifico dell’Istituto per la ricerca cardiovascolare Prassis Sigma-Tau
“L’ipertensione arteriosa che si sviluppa attraverso una molteplicità di meccanismi genetico ambientali, rappresenta un fattore di rischio di malattia cardiovascolare che interessa circa 1 miliardo di persone nel mondo che diventeranno 1,6 miliardi nel 2025. Almeno due dozzine di farmaci anti ipertensivi sono a disposizione del medico, però manca la metodologia per somministrare il farmaco giusto che sia in grado di bloccare gli specifici meccanismi geneticomolecolari operanti nel singolo paziente o in sottogruppi di pazienti. Questa carenza è alla base degli scarsi risultati nella popolazione generale degli ipertesi dove solo un terzo dei pazienti ha la sua pressione arteriosa controllata dalla terapia”. E’ proprio prendendo come paradigma questa diffusa e nota malattia che il prof. Giuseppe Bianchi dell’Università ‘Vita Salute’ San Raffaele di Milano ha affrontato l’argomento della complessità delle malattie multifattoriali nel corso della conferenza pubblica tenutasi domenica scorsa nell’ambito di Spoletoscienza, l’appuntamento annuale organizzato da Fondazione Sigma Tau. ”Questo comporta un aumento delle malattie cardiovascolari legate all’ipertensione e dei relativi costi annuali sanitari (diretti e indiretti) – ha detto Bianchi - L’obiettivo fondamentale della medicina personalizzata è quello di stabilire delle connessioni causali fra variazione del DNA o di altre molecole che caratterizzano l’individualità del singolo paziente, o gruppi di pazienti, con i sintomi clinici o la risposta ai farmaci. Il raggiungimento di questo obiettivo richiede l’integrazione di discipline diverse, cioè, in altre parole, affrontare la complessità delle relazioni fra alterazioni molecolari e sintomi clinici. Quindi, non stupisce che a distanza di 11 anni dalla decodifica del genoma umano e a più di 20 dalla prima pubblicazione sulla genetica dell’ipertensione arteriosa, i benefici (diagnostici e terapeutici) per i pazienti siano ancora molto modesti o quasi assenti. Voglio concentrarmi sul contributo che la genetica potrebbe fornire qualora venissero chiaramente individuati e superati gli ostacoli che si oppongono alla soluzione di questo problema. Tali ostacoli si possono così riassumere: l’effetto clinico di un singolo gene o allele è modulato da una varietà di altri geni e fattori ambientali che devono essere identificati per stabilire l’impatto clinico del gene in questione (rete genetica o ambientale); lo stesso sintomo clinico (nel nostro caso l’ipertensione) può essere causato da reti genetiche-ambientali diverse (eterogeneità genetica); queste reti sono organizzate in modo gerarchico nelle diverse fasi (iniziale, sviluppo, mantenimento e progressione) della malattia; queste reti sono specie-specifiche e quindi complicano la trasmissione dell’informazione genetica o farmacologica dall’animale all’uomo; per questo motivo il ruolo di ciascuna rete deve essere valutato e dimostrato anche nell’uomo”.
“Negli anni – ha raccontato il prof Bianchi - il nostro gruppo ha affrontato progressivamente i seguenti problemi cercando di tenere presente gli ostacoli sopra citati: a) ha confrontato un modello noto di ipertensione arteriosa (renovascolare) nell’animale con l’uomo per identificare i meccanismi fisiopatologici e molecolari presenti nelle due specie; b) ha sviluppato un modello animale di ipertensione genetica, i cui meccanismi genetici potrebbero anche essere operanti nell’uomo; c) ha studiato i meccanismi fisiopatologici che sottintendono lo sviluppo di questa ipertensione nell’animale; d) ha confrontato questi meccanismi con quelli operanti nelle fasi precedenti o durante lo sviluppo dell’ipertensione nell’uomo; e) partendo dai meccanismi fisio-patologici comuni alle due specie, ha cercato di identificare i meccanismi genetici-molecolari che li sottintendono arrivando così a definirne due: adducina mutata e ouabaina endogena; f) ha valutato il ruolo di questi due meccanismi nelle fasi che precedono ed accompagnano lo sviluppo dell’ipertensione arteriosa nell’uomo; g) attraverso un programma di Medicinal Chemistry, ha identificato un composto chimico, Rostafuroxin in grado di inibire con grande affinità e selettività i due meccanismi sopracitati; h) ha studiato questo composto nell’uomo confrontando i suoi effetti sia nei portatori delle alterazioni genetiche sopra menzionate sia in quelli privi di tali alterazioni; i) ha dimostrato che il profilo genetico in questione, che è presente in circa un quarto degli ipertesi, è in grado di influenzare l’effetto antiipertensivo di Rostafuroxin ma non quello di altri due farmaci antiipertensivi che agiscono con meccanismi diversi; j) infine, siccome il profilo genetico, o alcune sue componenti, è in grado di promuovere delle modificazioni cellulari e di organo che favoriscono le complicanze cardiovascolari dell’ipertensione (stroke, malattie coronariche e renali), è probabile che questo farmaco sia in grado di ridurre queste complicanze in modo più efficace rispetto alla terapia tradizionale. É evidente anche ad un non esperto che questo percorso, durato alcune decine di anni, ha comportato l’attraversamento di parecchie discipline (genetica, biologia molecolare, biochimica, struttura e funzione delle proteina, clinica cardiovascolare e fisiopatologia del sintomo, clinica, chimica, farmacologia sistemica cellulare e proteica, farmacologia clinica).
L’attraversamento di queste discipline e la loro corretta applicazione al problema è stato reso particolarmente difficile non solo dal peculiare know-how teorico-pratico da dominare, ma anche dalle relative chiusure che alcune di queste discipline hanno rispetto alle altre per quanto riguarda i criteri di valutazione dei risultati, il linguaggio e le sedi, (congressi o riviste) dove questi risultati vengono confrontati e discussi. Comunque, questi risultati hanno portato all’individuazione e valutazione clinica (ancora parziale perché si tratta di studi clinici di fase 2) di una piccola molecola in grado di bloccare selettivamente dei meccanismi molecolari di ipertensione arteriosa in circa il 25 per cento dei pazienti ipertesi. Oltre alle implicazioni pratiche, questi risultati permettono di “misurare” la dimensione dell’impatto clinico del profilo genetico”.