Il punto di vista del prof. Ferdinando Squitieri, Direttore Scientifico della Fondazione Lega Italiana Ricerca Huntington (LIRH)
Sul tema “malattie genetiche e diritto di non sapere”, i due casi giuridici citati a titolo di esempio in un articolo pubblicato oggi su OMaR, riguardano la stessa patologia: la malattia di Huntington. Per questo motivo, l’Osservatorio Malattie Rare ha deciso di interpellare sull’argomento anche uno dei massimi esperti italiani di Huntigton, il prof. Ferdinando Squitieri, Neurologo Responsabile dell’Unità Ricerca e Cura Huntington e malattie rare, (San Giovanni Rotondo, Foggia), e Direttore Scientifico della Fondazione Lega Italiana Ricerca Huntington (LIRH).
“Le due cause giudiziarie - commenta il prof. Squitieri - mettono in evidenza un comune denominatore: l’indispensabile e necessaria cultura di counselling genetico da garantire durante un intervento di test genetico. In entrambi i casi, infatti, l’unica reale risorsa sarebbe stata quella dell’azione di buon senso, seguendo consolidate line guida che, almeno per la malattia di Huntington, la comunità scientifica ha deciso di adottare dopo intensi confronti, dal 1993 - dopo la scoperta del gene - agli aggiornamenti più recenti”.
“Infatti, nel primo caso, emerge un evidente controsenso. C’è da una parte una richiesta del genitore di non trasmettere l’informazione alla figlia per il timore che potesse scegliere di rinunciare al bambino, sostituendosi così, al libero arbitrio della figlia; dall’altra parte, c’è una struttura sanitaria pubblica inglese che prende in carico l’incombenza della tutela di una condizione psicologica complessa di entrambi, padre e figlia, accettando, d’altra parte, il compromesso di tutelare il segreto del padre. Non dovrebbe essere questo il ruolo di una struttura di sostegno, ma caso mai quello di mediare tra le parti perché si giunga ad un confronto consapevole, senza parti in causa privilegiate. Diversamente, non sarebbe stata quella struttura a doversene occupare per entrambi. Comprendo, pertanto, il motivo della riapertura del caso. Il padre di Elizabeth ha tutti i diritti di mantenere la sua riservatezza, ma non ha il diritto di condividere complicità perché si ometta un’informazione: in questo caso omissione e bugia condividono un sottile confine”.
Nel secondo caso - prosegue Squitieri - emerge un’altra curiosa incongruenza: quella della donna che denuncia il medico per aver ricevuto un’informazione indirettamente legata al rischio genetico dei figli: poteva, caso mai, essere l’ex marito a denunciare il medico, e non la donna; oppure, la donna avrebbe dovuto agire nei confronti dell’ex marito, ma non del medico. In tutti i casi, emerge un’evidente difficoltà di comunicazione tra le parti, forse non mediata dallo specialista con una adeguata competenza di counselling”.
“Mi vengono in mente vari esempi nella mia esperienza, dal caso di annullamento del matrimonio, da parte della Sacra Rota, ottenuto dal marito al quale la moglie (insieme a tutta la sua famiglia) aveva taciuto l’esistenza della malattia, fino ai casi di bambini fatti nascere dopo test prenatale positivo, nella consapevolezza, da parte dei genitori, che si potrebbero un giorno ammalare”.
“Dal mio punto di vista – conclude Squitieri – è lo specialista che dovrebbe svolgere un ruolo protettivo, nel garantire il diritto sia alla privacy che alla salute, cercando così di limitare, per quanto possibile, il ricorso alle azioni legali tra le parti, come invece è evidentemente accaduto nei due esempi citati”.