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Dottoressa Barbara Hugonin

Il punto di vista di Barbara Hugonin, genetista e fellow al Rare diseases training program del Nationwide Children's Hospital di Washington D.C.

Il tema “malattie genetiche e diritto di non sapere”, affrontato da OMaR in un recente articolo, ha destato molto interesse tra i lettori e anche tra la classe medica. Dopo un primo commento a firma del prof. Ferdinando Squitieri, è ora giunto anche un articolo della dottoressa Barbara Hugonin, genetista e fellow al Rare diseases training program del Nationwide Children's Hospital di Washington D.C., che riportiamo di seguito integralmente.

“Faccio mie le parole dell'esperto Seymour Kessler, in Notes and reflections: “Ho imparato che la consulenza genetica riguarda il lato oscuro della vita, e il nostro lavoro di professionisti consiste nell’aiutare in qualche modo gli esseri umani a prepararsi a far fronte all’oscurità e, se c'è, a conviverci”.

È l’oscurità, la paura di non sapere a cosa si andrà incontro, o la paura di vivere situazioni terribili e conseguenze già viste, è la sofferenza nello scoprire una possibile malattia in un figlio e sentirsene magari responsabili, perché portatori. La complessità delle malattie genetiche, rare e non, richiede non solo una elevata competenza tecnica e diagnostica, ma anche doti umane e capacità di creare un rapporto con il paziente e di accompagnarlo lungo tutto il percorso prima, durante e dopo la diagnosi. Una consulenza genetica non può essere considerata come una sentenza senza appello, né tantomeno ha fini selettivi, come alcune linee di pensiero vorrebbero far intendere. Se i pazienti hanno il diritto di non voler sapere o di non voler essere informati, dovrebbe esistere un dovere di informarsi e di sapere allo stesso tempo. La paura dell'ignoto, dell’oscurità che porta con sé la malattia sconosciuta, è ulteriormente accentuata dal fatto che spesso nel percorso di consulenza genetica si viene lasciati soli, si intraprende un cammino frammentato dove manca la comunicazione medico- paziente e tra specialisti.

La consulenza genetica 4.0 dovrebbe essere concepita come un progetto di accompagnamento del paziente, con una parte preliminare in cui lo specialista instauri un rapporto basato sulla fiducia e sulla riservatezza, dove non si tralasci l'approfondimento della storia familiare del paziente stesso (3 su 5 rivelano di non aver mai affrontato questo aspetto soprattutto inizialmente), dove si presenta e si spiega come e perché la malattia potrebbe riguardare anche altri membri della famiglia. Parlare di tutti questi aspetti non ha un fine coercitivo, né di imposizione nei confronti del paziente, ma determina la consapevolezza nella persona di ciò che sta affrontando. In molti casi ci si può trovare davanti ad una malattia dove esistono possibili opzioni terapeutiche ed un'aspettativa di vita differente, in altri no, non esiste cura, o terapia sperimentale, e allora è lecito chiedersi: “Che senso ha voler sapere se il proprio figlio ha una malattia senza cura?”. “È etico?”. “Potrebbe portate ad un eccesso di medicina predittiva ai fini selettivi?”. “E se non si trovasse mai una cura?”

Alla luce di questo può essere utile guardare le cose anche da un'altra prospettiva: le malattie genetiche, esattamente come tutte le altre malattie, hanno una causa, che può consistere in una o più mutazioni e di interazioni complesse tra esse e altri fattori esterni che le influenzano. Dinanzi ad una malattia infettiva ricerchiamo la causa attraverso delle indagini microbiologiche e virologiche, dinanzi ad una patologia ormonale ricerchiamo la causa attraverso i dosaggi ormonali e gli esami strumentali, e così via. Allora perché le malattie genetiche, siano esse rare o meno, non dovrebbero essere trattate allo stesso modo? Anzi, forse con un riguardo maggiore, visto che l’espressione genica influenza funzioni dell’organismo tuttora sconosciute. La diagnosi di una malattia senza cura non è mai inutile, perché la medicina non potrà mai combattere questo nemico oscuro se non impara a conoscerlo, e se questa malattia dovesse riguardare più membri di una stessa famiglia o addirittura di una stessa comunità, dove per motivi etnico-geografici vi è una maggiore incidenza? Sarebbe corretto vivere nell’oscurità solo perché si tratta di una patologia al momento senza cura? Allora perché non si applica lo stesso discorso ad una malattia infettiva? Forse perché riguarda un numero più vasto di persone mentre quando si tratta di malattie genetiche si pensa sempre sia un problema di pochi?

Mi piace ricordare l’esempio di Augusto e Michela Odone, al cui figlio Lorenzo fu diagnosticata l'adrenoleucofistrofia negli anni 80, dinanzi all'ignoto e al terribile epilogo che gli fu prospettato, nonostante lo stigma di una madre che si sentiva responsabile in quanto portatrice, decisero di affrontare l’oscurità. E l’oscurità, il nemico lo puoi affrontare e cercare di fermarlo solo se prima lo conosci da vicino, se sai come si comporta. E fecero qualcosa che nessuno riteneva possibile.

Credo che, nel rispetto delle volontà della persona, sia necessario non perdere di vista il bene comune, il valore della medicina come strumento di miglioramento della vita di ciascuno, sia anche esso l'unico sulla faccia della terra ad avere quella malattia”.
 

Questo articolo si basa su un estratto, rielaborato, del saggio con il quale la dott.ssa Hugonin è stata accettata, come unica europea, nel “Rare diseases training program” del Nationwide Children’s Hospital di Washington D.C., con un progetto sulle leucodistrofie e i disordini della mielina. 

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