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In Italia ci sono oltre un milione e mezzo di persone, in gran parte bambini, affetti da malattie rare. La stima è quella fatta nel 2004 dal progetto Orphanet – Italia, attualmente coordinato dal Prof. Bruno Dallapiccola, direttore scientifico dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma. Il dato è riferito al 2004, oggi, grazie ad una maggiore sopravvivenza per alcune malattie rare e grazie a un miglioramento nei meccanismi della diagnosi, il numero potrebbe essere sensibilmente aumentato. Dietro ad ognuno di questi malati c’è una rete familiare dedita all’assistenza e, stando ai dati presentati oggi dall’Isfol nel convegno nazionale “Costi sociali e bisogni assistenziali nelle Malattie Rare”, si tratta di famiglie la cui vita è stravolta dalla malattia, tanto a livello emotivo quanto economico e lavorativo. Lo studio, primo nel suo genere in Italia, è stato condotto dall'Istituto per gli Affari Sociali (IAS), in collaborazione con la Federazione Italiana Malattie Rare Uniamo-FIMR Onlus, Orphanet-Italia e Farmindustria, per rilevare i bisogni assistenziali, i costi sociali ed economici di questi malati e del le loro famiglie per contribuire a specifiche misure di sostegno.     

Dal Rapporto di ricerca, che analizza seicento questionari distribuiti ad undici Associazioni di Malattie Rare e alla Fondazione Irccs. Istituto Neurologico “Carlo Besta”, emerge che le famiglie che assistono un malato raro hanno bisogno di sostegno, poiché affrontano quotidianamente problematiche multifattoriali. Per far fronte agli impegni di assistenza di un malato raro nel 90 per cento il padre e/o la madre lasciano il lavoro o comunque subiscono degli effetti negativi nella loro professione, soprattutto quando ad essere malato è un bambino. Dallo studio è infatti emerso che nel 39 per cento delle famiglie con malati pediatrici entrambe i genitori lasciano o limitano il lavoro, il 37 per cento ricorre ad aiuti esterni alla famiglia per gestire le diverse necessità. Le difficoltà pratiche maggiori riguardano l’accesso ai centri clinici di riferimento: nell’83 per cento dei casi i pazienti devono raggiungerli effettuando spostamenti più o meno lunghi, poiché solo il 17 per cento ha il centro clinico nella propria città di residenza (il 40 per cento deve spostarsi in un’altra regione). Questo implica la necessità di affrontare spese di viaggio, talvolta di pernottamento, nonché investimenti in termini temporali.
Senza contare poi che, nonostante gli impegni portati avanti in questi anni a livello di SSN nella costituzione di una rete di centri clinici specializzati, e nonostante l’importante azione di informazione ed orientamento da parte delle Associazioni, esiste ancora un 9 per cento tra i rispondenti che non ha individuato un centro clinico di riferimento e un 20 per cento che non ha alcun referente territoriale.
Non è un caso che siano più serene quelle famiglie che hanno trovato un referente territoriale (medico di famiglia, psicologo, Associazione), il 92 per cento di questi dichiara un livello di soddisfazione sufficiente o più che sufficiente, perché trova in questi soggetti un sostegno immediato e facilmente accessibile nelle difficoltà quotidiane. Il suo servizio, seppur legato a competenze meno specialistiche rispetto a quelle del centro clinico di riferimento, è particolarmente importante per il paziente e i suoi famigliari.

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