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L'approccio sperimentato è rivolto al recupero della proteina difettosa che scatena la malattia

Grazie allo sviluppo di farmaci noti come “correttori di CFTR”, che stanno trainando la ricerca sulla fibrosi cistica (CF), si sono incredibilmente aperte nuove prospettive terapeutiche anche per la distrofia dei cingoli di tipo 2D (LGMD2D). La notizia giunge dalle pagine della rivista Human Molecular Genetics, grazie all’articolo pubblicato da un gruppo di ricercatori italiani e francesi, che hanno impiegato, su cellule primarie miogeniche di un paziente affetto da LGMD2D, i medesimi correttori che agiscono sulla proteina CFTR, bersaglio delle mutazioni genetiche che sono all'origine della fibrosi cistica.

Innanzitutto, bisogna ricordare che la struttura terziaria di una proteina costituisce la conformazione tridimensionale raggiunta dalla sequenza aminoacidica che rappresenta il cuore pulsante della stessa proteina. Purtroppo, come avviene nel caso della fibrosi cistica, alcune mutazioni genetiche possono interferire coi meccanismi di ripiegamento (folding) a partire da cui questa struttura prende forma. Tutto ciò accade anche nelle distrofie dei cingoli, un gruppo di malattie caratterizzato da un’ampia eterogeneità a livello clinico e genetico, oggetto di una fervida attività di ricerca, come dimostrato, ad esempio, dall’alleanza tra Sarepta e Myonexus per lo sviluppo di una terapia genica contro alcune forme di questa patologia. Le distrofie dei cingoli sono state classificate in due grandi gruppi (LGMD1 e LGMD2) sulla base del tipo di ereditarietà che le caratterizza (autosomica dominante o recessiva). La terapia genica del duo Sarepta-Myonexus si focalizza, tra tante, sulla forma LGMD2E - originata da mutazioni nel gene che codifica per la proteina denominata beta-sarcoglicano - mentre i correttori usati dai ricercatori italiani sono stati sperimentati per la forma LGMD2D, nota anche come alfa-sarcoglicanopatia in quanto scatenata da mutazioni che colpiscono il gene per l’alfa-sarcoglicano. In entrambe queste forme di malattia, il deficit di forza e la perdita della capacità di deambulazione sono i sintomi principali di una malattia progressiva che attacca la mobilità e per cui non esiste ancora una cura.

“Nel caso della fibrosi cistica, la ricerca si sta orientando sullo sviluppo di correttori capaci di interferire con la degradazione delle proteine vittime di un ripiegamento difettoso”, spiega la dott.ssa Chiara Gomiero, tra gli autori dello studio pubblicato su Human Molecular Genetics. “Nonostante le mutazioni che provocano la fibrosi cistica siano diverse da quelle che scatenano le distrofie dei cingoli, il difetto provocato alla struttura della proteina si assomiglia. Nella nostra ricerca abbiamo utilizzato gli stessi correttori della fibrosi cistica sulle cellule che esprimevano l’alfa-sarcoglicano difettoso, nel tentativo di trovare una possibile strategia terapeutica per la malattia”. Con questo intento, sono stati testati 12 correttori sviluppati per contrastare la fibrosi cistica, tra cui la molecola lumacaftor (VX-809), e il risultato di questa fase di ricerca ha evidenziato che due di essi (C5 e C17) sono stati efficaci nel recupero della proteina difettosa in tutte le mutazioni considerate.

“Grazie al lavoro sulle linee cellulari HEK293 è stato ricreato in vitro il modello dell’alfa-sarcoglicanopatia”. prosegue la dott.ssa Gomiero. “Le cellule sono state transfettate con l’alfa-sarcoglicano e, successivamente, sono state trattate con un inibitore del proteasoma che inibisce la proteina non correttamente ripiegata, la quale rimaneva in circolo. Col blocco del proteasoma [un complesso multiproteico deputato alla degradazione delle proteine cellulari, N.d.R.] si è visto che questa proteina non degradata continuava a svolgere comunque la sua corretta funzione. Perciò siamo partiti dal principio, cercando di capire quale dose di correttori usare per ripristinare il ripiegamento, e abbiamo osservato che alcuni correttori permettevano un recupero della proteina”. In aggiunta a ciò, è stato possibile notare che il recupero non è avvenuto solamente nell’ambito del modello cellulare della malattia, ma anche sulle cellule miogeniche prelevate da un paziente affetto da distrofia LGMD2D.

Questo studio rappresenta la prima pietra di un edificio che si spera possa essere edificato con raziocinio e senza perdere tempo e, di fatto, prospetta una potenziale strategia farmacologica che può affiancarsi alla terapia genica ed essere favorevolmente applicata ai pazienti affetti da LGMD2D. Inoltre, se l’approccio usato troverà ulteriori riscontri, sarà possibile pensare seriamente all’uso di questo tipo di correttori anche per altre malattie genetiche.

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