Ne abbiamo discusso con il dottor Cipriani (Genzyme) in occasione della European Biotech Week
La scoperta del DNA e la successiva applicazione delle moderne scienze della vita nell'ambito della salute ha permesso di fare grandi progressi sia nel campo della diagnostica che nel campo delle terapie, che oltre ai farmaci biotech, comprendono ora anche le terapie geniche. Tutto questo ci mette oggi in condizione di diagnosticare con precisione patologie che prima potevano essere evidenziate solo dopo la severa compromissione del paziente. E’ possibile oggi intervenire tempestivamente e con maggiori probabilità di successo. Questo è uno dei temi affrontati nel corso della prima edizione della European Biotech Week, la settimana promossa da EuropaBio (Associazione europea delle biotecnologie) e coordinata, in Italia, da Assobiotec, che si è chiusa domenica scorsa. Filippo Cipriani, Associate Director Market Access Europa di Genzyme, ha aiutato Osservatorio Malattie Rare a fare chiarezza su queste tematiche così rilevanti per i nostri lettori.
Dott. Cipriani, un esempio di questa diagnostica precoce è certamente nelle nuove metodiche di screening neonatale, ci può raccontare come è stata l'evoluzione?
Le basi di questa capacità diagnostica si possono trovare nel lavoro pioneristico di Robert Guthrie che, nei primi anni ’60, ha segnato tanto il razionale quanto la metodologia degli attuali screening neonatali. Da un lato, infatti, Guthrie è l’artefice di un test di inibizione batterica per l’identificazione delle Fenilchetonuria (PKU,una delle patologie screenate in Italia insieme ad ipotiroidismo e fibrosi cistica, secondo la Legge 104 del 5 febbraio del 1992) prima dell’insorgenza di danno neurologico permanente; dall’altro, siamo a lui debitori anche per lo sviluppo dei cartoncini su cui raccogliere/trasportare e conservare le gocce di sangue prelevate dal tallone dei neonati.
Parallelamente, la tecnologia del DNA ricombinante ha permesso un ulteriore balzo in avanti sia dal punto di vista terapeutico che diagnostico: i primi farmaci biotech erano di origine estrattiva, da animali o da cadaveri, e con limitazioni intrinseche quali quantità ridotte. Ora abbiamo farmaci più sicuri ed efficaci, pertanto è la capacità di riconoscere i sintomi e di formulare una diagnosi tempestiva a dover fare un passo in avanti.
Esiste oggi la possibilità di identificare mediante screening neonatale allargato, dunque con un semplice prelievo di sangue effettuato entro 72 ore dalla nascita, fino a 60 patologie. Su questa opportunità c’è grande attenzione anche a livello del Parlamento Europeo ed è anche da qui che viene la richiesta di un’armonizzazione nelle politiche dei diversi Paesi.
Ci sono molte diversità tra i Paesi UE? E qual è la situazione italiana?
La situazione è tanto eterogenea in Europa quanto in Italia. Vi sono realtà quali Austria, Belgio, Germania, Danimarca, Ungheria, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna che hanno allargato l’offerta di screening da un minimo di 15 fino ad un massimo di 29 patologie. Per molte di queste condizioni non serve una terapia farmacologica, ma semplicemente una dieta appropriata, proprio come nel caso della fenilchetonuria.
In Italia, i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) prevedono lo screening neonatale obbligatorio solo per 3 patologie, delegando alle Regioni la possibilità di ulteriori inclusioni. Alcune realtà hanno autonomamente, e a mio avviso con lungimiranza, ampliato l’offerta già da tempo, allineandosi alle realtà europee sopra menzionate, mentre altre si stanno ancora attrezzando per partire a breve, pur avendo già emanato le necessarie delibere.
Purtroppo manca una consensus per la definizione di un elenco di patologie da inserire nel panel dello screening metabolico allargato. In assenza di un panel condiviso si assiste quindi a una disparità di accesso regionale, descrivibile come “postcode lottery”: due piccoli pazienti, affetti dalla medesima malattia metabolica, ma residenti in province limitrofe di Regioni diverse, possono avere potenzialmente prospettive di vita completamente diverse. Questo non deve accadere. Il risultato da perseguire è l’inclusione uniforme ed equa su tutto il territorio nazionale di tutte le patologie per le quali si dispone sia di test affidabili che di trattamenti dietetici e/o farmacologici di comprovata efficacia. Contestualmente, occorre un dialogo approfondito, coordinato a livello centrale, tra tutte le parti – incluse associazioni scientifiche e associazioni pazienti - per la definizione della presa in carico del piccolo paziente e il monitoraggio degli esiti del trattamento.
Probabilmente alcune Regioni temono i costi di un allargamento dello screening, ma è davvero sempre una spesa aggiuntiva?
L'allargamento degli screening neonatali deve essere necessariamente contestualizzato nella volontà da parte del SSN non solo a rimborsare le terapie, ma a portare effettivamente le terapie al paziente; a mio avviso non parlerei di spesa, ma di un piccolo investimento (parliamo di circa 50-60 euro per neonato per un panel di screening allargato) che porterebbe però a grandi risultati in termini di salute per le future generazioni, a patto di prendere adesso decisioni nello spirito del vantaggio perla società. Inoltre, anche se ci limitiamo ad un orizzonte temporale a più breve temine, è evidente come l’allargamento possa in alcuni casi portare ad un risparmio. È emblematico il caso di una giovane paziente siciliana affetta da Glutarico Aciduria di tipo I, patologia rara già diagnosticata tramite screening allargato in alcune Regioni. Come in molti altri casi analoghi, una diagnosi precoce evita in prima battuta al paziente danni gravi. Infine, la somma che è stata necessaria per curare tardivamente un singolo paziente potrebbe finanziare lo screening, allargato alla Glutarico Aciduria di tipo I di tutti i nuovi nati siciliani per un periodo di alcuni anni, permettendo di risparmiare prima di tutto molte sofferenze e di ottimizzare le risorse. In altre parole, lo screening rappresenterebbe un ottimo investimento, permettendo un miglior outcome di salute ad un costo complessivamente più contenuto.
Da questi esempi è evidente che non tutti i bimbi italiani oggi hanno la stessa probabilità di avere una diagnosi precoce. E’ un po’ paradossale visto che, se l’avessero, almeno a una parte di loro il biotech potrebbe offrire una terapia. Cosa fa la vostra azienda per superare questa contraddizione?
Nella esperienza e nella filosofia di accesso al mercato di Genzyme, che mette il paziente al centro del percorso diagnostico-terapeutico, il rimborso delle terapie non rappresenta un punto di arrivo bensì il punto di partenza. In passato, la definizione stessa di farmaco orfano descriveva il disagio dei paziente per i quali non venivano sviluppate terapie. Ora, a distanza di anni e grazie alle differenti legislazioni a tutela dello sviluppo di trattamenti per le malattie rare, assistiamo paradossalmente a pazienti “orfani” di una diagnosi corretta. Molte terapie sono oggi disponibili, ma a causa della difficoltà di fare una diagnosi tempestiva molti pazienti ne beneficiano solo dopo una odissea diagnostica che può durare anche molti anni. L’impegno di Genzyme si rivolge tanto alla sensibilizzazione sul disagio sofferto dai malati rari quanto al superamento concreto del ritardo diagnostico.
La vostra non è solo una dichiarazione di intenti, siete infatti impegnati in progetti concreti che mettono al centro il paziente e la diagnosi, ce ne può parlare?
Attualmente Genzyme collabora in differenti progetti di ricerca che si muovono in questo senso. Stiamo, ad esempio, lavorando ad una partnership pubblico-privato che permetterà di quantificare il profilo di consumo di risorse sanitarie dei malati rari di una grande Regione Italiana, con particolare enfasi alla definizione del periodo che intercorre tra esordio dei sintomi e ricevimento della diagnosi corretta. Una diagnosi sbagliata e un trattamento errato comportano un utilizzo inefficiente delle risorse economiche, nonché una perdita di fiducia nel sistema da parte del malato; noi vorremmo contribuire a far sì che il SSN riesca ad attribuire a ciascun malato raro la diagnosi corretta a vantaggio di tutto il sistema e naturalmente - ed in primo luogo - del paziente. Un esempio tangibile di questo tipo di lavoro è la collaborazione con il CNR di Palermo che ha permesso di identificare 3 soggetti con malattia di Anderson-Fabry in una indagine pilota su 42 pazienti ai quali era già stata diagnosticata in passato la Febbre Mediterranea. La confusione tra le due patologie è possibile perché lo spettro di sintomi risulta ampliamente sovrapponibile; tuttavia, il ritardo della diagnosi corretta potrebbe aver causato un danno d’organo, compromettendo parte dei benefici ottenibili attraverso un trattamento tempestivo con la terapia corretta.
Per i tempi lenti della scienza 60 anni in fondo sono pochi, il biotech è in espansione ed è al tempo stesso un settore giovane: la stessa terapia genica che tanto spesso ha fatto sperare, per ora ha dato risultati apprezzabili sono in un paio di malattie. In che direzione pensa che si muoverà il biotech nei prossimi anni? Ci sono campi di impiego in cui è più probabile che ci siano risultati di rilievo? La approvazione in Europa di Glybera, la prima terapia genica, è un importante traguardo. Il trattamento, che ha ottenuto la designazione orfana ed è destinato a curare una patologia che affligge meno di due soggetti per milione, rappresenta un grande successo. L’iter è cominciato a dicembre 2009 ma si è concluso solo a fine 2012, dopo due pronunciamenti sfavorevoli da parte del CHMP. Altre terapie di questo tipo arriveranno molto presto e anche Genzyme è tra le aziende ad un punto avanzato di ricerca in questo settore. EMA, da questo punto di vista, dovrà attrezzarsi con le migliori competenze. Inoltre, è certamente auspicabile un dialogo precoce tra Aziende e Ente Regolatorio in modo da produrre le migliori evidenze possibili e scongiurare evitabili ritardi approvativi, potenzialmente deleteri per i pazienti.