Oggi per questa patologia è disponibile un trattamento e il merito è della collaborazione fra ricercatori, pazienti, autorità regolatorie, partner farmaceutici e politica
Liverpool (Regno Unito) – Realizzare uno studio clinico è un processo di grande complessità, specialmente nell'ambito delle malattie rare. Una sfida che nel caso dell'alcaptonuria (AKU) è stata affrontata a superata con successo: a raccontare i dettagli del percorso è uno studio pubblicato sull'Orphanet Journal of Rare Diseases dal prof. Lakshminarayan R. Ranganath, dell’Università di Liverpool, e da Nick Sireau, presidente della AKU Society. Sireau, padre di due figli affetti da alcaptonuria, è un pioniere nella lotta a questa patologia: OMaR ha raccontato la sua storia in due articoli, nel 2016 e nel 2019.
L'alcaptonuria è una rara e grave malattia ereditaria, autosomica recessiva, che si verifica con una frequenza mondiale di un caso su 250.000. La sua causa è la carenza dell'enzima omogentisato diossigenasi, che provoca un accumulo di acido omogentisico (HGA). Questo processo coinvolge diversi apparati e ha come conseguenza la rigidità e la fragilità dei tessuti e la tendenza alla degradazione, con fenotipi variabili caratterizzati da spondiloartrite precoce grave, litiasi, malattie delle valvole cardiache, fratture, rottura di muscoli e tendini e osteopenia. La malattia è lentamente progressiva, di solito con una lunga fase presintomatica (a parte le urine scure) fino ai 25-30 anni.
La sua rarità e l'assenza di gravi morbilità nei primi anni di vita hanno ostacolato i progressi nella conoscenza della patologia: nella letteratura medica erano pochi gli studi, e descrivevano un numero significativo di casi. Poi, nel corso degli anni, le attività di ricerca svolte presso i National Institutes of Health negli Stati Uniti e il National Alkaptonuria Center nel Regno Unito hanno contribuito a colmare questa lacuna e a comprendere più a fondo questa condizione. Gli studi di storia naturale della patologia, in particolare, hanno sottolineato nuovamente la progressione lenta e inesorabile dell'AKU e la sua presentazione multisistemica, portando allo sviluppo di un punteggio composito che descrive l'onere della malattia.
Fino a venticinque anni fa non era disponibile alcuna terapia, ma nel 1998 fu suggerito che il nitisinone (NIT), già in uso come trattamento della tirosinemia ereditaria di tipo 1, potesse anche ridurre l'acido omogentisico. Gli studi iniziali utilizzarono una dose orale di 2 mg al giorno; 20 pazienti trattati furono confrontati con 20 pazienti del gruppo di controllo, impiegando la rotazione laterale dell'anca come endpoint primario, ma gli esiti dello studio risultarono inconcludenti e non portarono all'approvazione da parte della FDA.
Ci si rese conto, quindi, che uno degli ostacoli al successo della sperimentazione clinica era il basso numero di soggetti reclutabili: i trial, infatti, hanno bisogno di un'ampia dimensione del campione che fornisca loro la necessaria potenza statistica. Anche questa difficoltà è stata affrontata e risolta effettuando uno studio che ha consentito l'identificazione di 75 pazienti nel Regno Unito e 626 in altre nazioni.
L'ultima sfida era quella di ottenere dei finanziamenti: una problematica non da poco – con la presenza di oltre 7.000 malattie rare concorrenti – ma risolta grazie alla Commissione Europea che, attraverso il 7° Programma Quadro per la ricerca e lo sviluppo tecnologico, ha finanziato con 6 milioni di euro DevelopAKUre, un programma di studi iniziato nel novembre 2012. L'azienda svedese Sobi, inoltre, in qualità di partner farmaceutico, ha fornito gratuitamente il nitisinone. Infine, l'Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) ha compreso la complessità del trial e ha aiutato i ricercatori a individuare un endpoint metabolico realistico.
Così, finalmente, gli studiosi europei, riunitisi in un consorzio, sono riusciti a condurre un trial di Fase III sull'efficacia del NIT, chiamato “Suitability of Nitisinone in Alkaptonuria 2” (SONIA 2), che si è svolto nel Regno Unito, in Francia e in Slovacchia. Lo studio si è concluso nel febbraio 2019, l'analisi dei dati è stata completata e i risultati sono stati resi noti nel 2020. Contemporaneamente è stata inviata all'EMA la richiesta di estendere l'indicazione del farmaco all'utilizzo negli adulti con AKU, obiettivo raggiunto nello stesso anno.
Il percorso raccontato da Ranganath e Sireau evidenzia che realizzare un trial clinico nelle malattie rare è molto impegnativo e richiede un'attenta pianificazione e un coordinamento transnazionale. Gli autori hanno individuato alcuni aspetti fondamentali per il successo dello studio: il primo è costituire un consorzio che possa lavorare in modo collaborativo, con regolari riunioni fra tutti i partner per garantire una rapida identificazione e risoluzione dei problemi. Il secondo è il ruolo dei pazienti e delle associazioni che li rappresentano, le quali possono fare la differenza nella fase del reclutamento e della partecipazione al trial. È molto utile anche la collaborazione con le autorità regolatorie, che possono guidare i ricercatori nello sviluppo di un progetto di studio accettabile, che possa portare all'approvazione normativa di un nuovo trattamento. Ultimo, ma essenziale, è il finanziamento: perciò – concludono Ranganath e Sireau – è indispensabile la partecipazione di un partner farmaceutico, ed è da lodare la strategia adottata dalla Commissione Europea, che stanziando delle risorse offre una speranza a milioni di persone affette da malattie rare.