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Intervista Professoressa Annarosa Floreani, Professore Associato Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Oncologiche e Gastroenterologiche, Università di Padova

Fino a qualche anno fa la diagnosi che comunicavamo ai pazienti era quella di Cirrosi Biliare Primitiva, per loro era un trauma; infatti la parola cirrosi viene associata dal paziente ad una pessima prognosi e per lo più sottintende un’eziologia alcolica o comportamenti non corretti. Dovevamo spiegare, mettendoci molto tempo, che si trattava di tutt’altra malattia, nella quale la vera e propria cirrosi caratterizzata dal sovvertimento dell’architettura epatica, arriva eventualmente solo nella parte finale della malattia, dopo anche 20 anni. Di questa difficoltà tutta la comunità scientifica internazionale era al corrente, così lo scorso anno abbiamo deciso di cambiare la denominazione. Ora parliamo di Colangite Biliare Primitiva (CBP)”. A spiegare il perché di questo cambio di denominazione è la professoressa Annarosa Floreani, Professore Associato del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Oncologiche e Gastroenterologiche, Università di Padova, una vita spesa a studiare le patologie autoimmuni del fegato, la CBP in particolare, sia in Italia che all’estero e a prendersi cura di questi pazienti.

“Purtroppo – aggiunge – se la comunità scientifica si è adeguata, non altrettanto si può dire per la burocrazia italiana: per l’esenzione dal ticket è ancora necessario usare il vecchio nome e il vecchio codice di esenzione”. Anche su Orpha.net, il database internazionale delle malattie rare, la denominazione non è stata ancora aggiornata e le informazioni possono essere ricercate utilizzando il vecchio termine ‘Cirrosi Biliare Primaria’.

Professoressa, se non si tratta di una cirrosi associata all’alcol o ad altri stili di vita dannosi, di che patologia parliamo?
La CBP è una malattia autoimmune, vuol dire che per qualche motivo il corpo non riesce a difendersi da alcuni antigeni e ne viene danneggiato. In questo caso ad essere attaccati sono i piccoli dotti biliari che si infiammano, questo porta a una riparazione che crea del tessuto cicatriziale fibrotico che li danneggia progressivamente, se non si interviene questo danno compromette la funzionalità del fegato fino a rendere necessario il trapianto e predisponendo anche allo sviluppo del cancro in quella sede. Non c’è dunque un danno correlato con una dieta scorretta o con uno stile di vita scorretto.  
La malattia colpisce di più le donne, che rappresentano il 90% dei casi, ma gli uomini quando sono affetti da questa patologia hanno una maggiore possibilità di sviluppare un tumore epatico. In circa il 60% dei casi può essere associata ad altre malattie autoimmuni, come la sindrome di Sjogren, l’artrite reumatoide o l’ipotiroidismo autoimmune, anche queste a prevalenza femminile. 
Ci sono però una serie di cause su cui la scienza sta investigando. C’è certamente una predisposizione genetica, anche se non è stato individuato un gene candidato per la malattia. Ci sono dei geni che vengono studiati ma sono comuni anche ad altre patologie. Sono stati individuati anche casi di malattia nella stessa famiglia, tra i familiari consanguinei. In Italia i casi di familiarità sono presenti nel 3.8% dei casi. Ci sono poi dei trigger, possibili fattori scatenanti, ma anche su questi non c’è ancora chiarezza. Nel tempo sono state studiate possibili correlazioni con l’uso di coloranti per capelli o smalto per unghie, l’esposizione ad alcuni virus o batteri, o l’utilizzo di farmaci, ma solo in alcuni casi sono state trovate correlazioni statisticamente significative e non possiamo ancora affermare che ci siano legami certi. Nonostante sulle cause non ci sia ancora completa chiarezza ci sono tante altre cose che conosciamo e che ci permettono di intervenire efficacemente, l’importante è che la diagnosi sia precoce.

Parliamo dunque di diagnosi, è difficile farla? E perché deve essere precoce?
Rispetto a 20 anni fa oggi le possibilità diagnostiche e la conoscenza della malattia sono molto migliorate ed è difficile che un paziente non arrivi alla diagnosi corretta. Oggi ci sono dei marcatori di riferimento ricercabili con semplici esami di laboratorio effettuati sul sangue in pochi giorni. Il primo campanello d’allarme può essere un semplice aumento della fosfatasi alcalina tra gli esami di routine. Bisognerebbe sospettare la malattia già quando il valore della fosfatasi alcalina supera di una volta e mezza il valore di riferimento. Di fronte a questo dubbio si può procedere con la ricerca dell’anticorpo antimitocondrio – anche questo si esegue sul sangue in pochi giorni – poiché i pazienti con CBP hanno il 95% di positività per questo anticorpo. Solo il 5% di loro sono negativi per l’anticorpo antimitocondrio, ma è possibile in questi casi ricercare altri marcatori immunologici e avere una risposta certa.
Poi ci sono i sintomi: prurito e stanchezza, che possono manifestarsi indipendentemente dallo stadio della patologia. Il prurito si manifesta in circa il 50% dei pazienti – non sappiamo ancora cosa sia a farlo comparire o meno. Nelle donne in età fertile è più intenso nei giorni che precedono il ciclo mestruale, ha un ritmo circadiano durante la giornata ed è più intenso alla sera. Si localizza al tronco, agli arti superiori e inferiori e al dorso nella parte interscapolare. Può essere trattato con dei farmaci, a seconda dell’intensità, i casi più lievi rispondono anche all’esposizione al sole, i casi più gravi vanno trattati con farmaci impegnativi perché possono avere effetti collaterali importanti. In caso di mancata risposta ai farmaci si può pensare di avviare il paziente al trapianto. La stanchezza è l’aspetto che più impatta sulla qualità della vita: i pazienti riportano una forte stanchezza diurna, in parte legata anche ad una alterazione del ritmo e della qualità del sonno. Per questo consiglio spesso alle pazienti di dedicare più ore al sonno e a prevedere un riposo pomeridiano. Abbiamo poi notato che questo sintomo è maggiormente presente in Europa e Nord America, è meno frequente nella popolazione giapponese. L’astenia profonda rappresenta però un problema soprattutto per chi ancora conduce una vita attiva. La CBP ha un’età media di insorgenza intorno ai 50 – 55 anni, la paziente più giovane ha 17 anni e ho molte pazienti che hanno avuto un esordio dopo gli 80 anni. Se sono presenti questi sintomi e se ci sono gli esami di laboratorio alterati, soprattutto la positività dell’anticorpo antimitocondrio, abbiamo una diagnosi di certezza. L’opportunità di fare una biopsia epatica invece va valutata caso per caso, si può fare in un paziente giovane per avere una “fotografia” della situazione epatica che andrà seguita nel tempo, oppure in un paziente che presenta esami di laboratorio che indirizzano verso una malattia severa. Assai meno consigliabile nei pazienti anziani che di solito presentano una forma di malattia più lieve. In ogni caso, quando si ha una diagnosi di CBP è anche importante eseguire le indagini di laboratorio sui consanguinei, perché vista la possibile familiarità questo ci può aiutare a trovare altre persone affette in una fase precoce.  
La precocità della diagnosi è fondamentale perché un trattamento tempestivo e un attento monitoraggio non solo del fegato ma anche di altre possibili co-morbilità ci permettono di intervenire per dare al paziente una vita quanto più possibile normale. Oggi il trattamento di prima linea è con l’acido ursodesossicolico: il 60-70% dei pazienti risponde positivamente, con una normalizzazione degli esami di laboratorio. Il rimanente 30-40% dei casi non ha una risposta soddisfacente. Per questi pazienti ‘non responder’ si sta valutando l’utilizzo di farmaci di seconda linea soprattutto l’acido obeticolico che a breve riceverà l’approvazione dell’EMA (Agenzia Europea del Farmaco). L’acido obeticolico è stato utilizzato in diversi studi controllati di fase II e di fase III ai quali hanno partecipato ricercatori di tutto il mondo, compresi noi italiani. I risultati più importanti sono stati pubblicati recentemente sul New England Journal of Medicine*, che è una delle riviste mediche più prestigiose del mondo. Il parametro da tutti utilizzato per valutare l’efficacia della terapia è la riduzione della fosfatasi alcalina al di sotto di 1,67 volte il valore normale, valore al di sopra del quale l’aspettativa di vita è ridotta.

Ha parlato di co-morbilità, che altri problemi possono avere le persone con CBP?
Chi ha questa malattia ha anche la colestasi, cioè un ostacolo del flusso biliare con conseguente ritenzione nel sangue delle sostanze contenute nella bile. Una di queste sostanze è il colesterolo che in questi pazienti di solito è aumentato. Tuttavia non sempre l’ipercolesterolemia è un fattore legato al rischio di arteriosclerosi. Bisogna infatti verificare se si tratta di colesterolo legato alle LDL o alle HDL. La CBP presenta più spesso alti valori di colesterolo “buono” cioè associato ad alte HDL circolanti. Se invece troviamo alti valori di LDL – o colesterolo cattivo – il paziente può avere in associazione una sindrome metabolica, condizione che comporta un rischio di malattie cardiovascolari. A questo punto bisogna aiutare il paziente tenendolo lontano dal fumo, controllare la dieta e favorire la perdita di peso. Se invece il paziente non ha questi problemi non serve una dieta particolare, perché questa malattia pur colpendo il fegato non è correlata all’alimentazione: basta solo star lontani dall’alcol. Un altro elemento a cui bisogna guardare con attenzione è il rischio di osteoporosi perché il ridotto flusso biliare riduce l’assorbimento della vitamina D con conseguente alterazione del metabolismo osseo. Consigliabile quindi l’esecuzione della densitometria ossea a tutte le pazienti con CBP per mettere in atto misure di prevenzione e di terapia della demineralizzazione.

Questa malattia colpisce le donne, in alcuni casi anche in età fertile: la gravidanza è possibile?
Sì, è possibile e senza particolari rischi, eccetto nei casi in cui la malattia è in fase cirrotica, ma questo vale per qualsiasi malattia del fegato quando si trova nella fase avanzata. È comunque importante che la gravidanza nella paziente con CBP venga seguita da un team specialistico (ginecologo ed epatologo).

A livello internazionale c’è interesse riguardo a questa rara patologia autoimmune del fegato?
La comunità scientifica è molto attiva. Esiste ad esempio un’organizzazione che si chiama Global PBC, fondata nel 2012, alla quale aderiscono oltre 20 centri di tutto il mondo – 4 dei quali italiani, compresa Padova. Finora abbiamo raccolto in questi anni un database di circa 6.500 pazienti che ci permettono di capire l’evoluzione della patologia nel lungo termine, di individuare i fattori di rischio per lo sviluppo del tumore e di costruire strumenti di prognosi sempre migliori. La CBP è inserita anche nel progetto ERN delle malattie rare e rientra nel gruppo delle malattie epatologiche. Finora sono stati accreditati 28 centri europei di cui fanno parte 3 centri italiani (l’Azienda Ospedaliera di Padova, l’Ospedale S. Paolo di Milano e il S. Gerardo di Monza).

Per ulteriori informazioni sulla CBP, leggi qui la nostra intervista al prof. Domenico Alvaro.

*A Placebo-Controlled Trial of Obeticholic Acid in Primary Biliary Cholangitis, N Engl J Med 2016; 375:631-643August 18, 2016DOI: 10.1056/NEJMoa1509840. Tra gli autori italiani dello studio la prof.ssa Annarosa Floreani, il prof. Pietro Andreone, il prof. Pietro Invernizzi e il prof. Giuseppe Mazzella.

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