Negli Stati Uniti, meno del 2% degli adulti con cancro partecipa alle sperimentazioni. Tra le cause i requisiti di ammissibilità eccessivamente restrittivi
Uno dei settori più studiati nel generale contesto della ricerca medica è sicuramente quello dei tumori, condizioni che, pur essendo accomunate da un elemento di fondo, ossia la crescita anomala, incontrollata e dannosa di tessuto organico, si contraddistinguono per un'elevata eterogeneità, in relazione, soprattutto, alle cause scatenanti, ai fattori di predisposizione e ai diversi organi coinvolti. Oltre ai trattamenti convenzionali, come la chemioterapia, la radioterapia e gli interventi chirurgici, negli ultimi anni si sta assistendo all'elaborazione di nuovi approcci farmacologici, sempre più innovativi e mirati a specifiche tipologie di tumore. Un elemento imprescindibile, nell'ambito del lungo e complicato processo di sviluppo di qualsiasi medicinale, è rappresentato dagli studi clinici, noti anche come 'trials' in inglese, sperimentazioni che coinvolgono direttamente i pazienti e che risultano essenziali per la validazione generale delle nuove terapie, in modo particolare dal punto di vista della sicurezza.
Nonostante i continui sforzi per migliorare il disegno degli studi clinici sui tumori, le stime attuali attestano che, soltanto negli Stati Uniti, meno del 2% dei pazienti adulti con cancro partecipi alle sperimentazioni: un problema che, se grave in assoluto, può risultare addirittura drammatico nel caso in cui le indagini cliniche abbiano come oggetto i tumori rari, già contraddistinti da una scarsa incidenza. A questo basso tasso di iscrizione contribuiscono diversi aspetti, tra cui, ad esempio, la mancanza di fiducia del paziente nel sistema sanitario, l'inadeguatezza delle informazioni fornite dal personale medico circa i protocolli di studio o la carenza di centri disponibili allo svolgimento delle sperimentazioni. Accanto a tutto ciò, nell'ambiente della ricerca è stato evidenziato, già da diverso tempo, che ad ostacolare fortemente una maggiore inclusione di pazienti negli studi clinici sono proprio i criteri di ammissibilità dei partecipanti, considerati troppo restrittivi.
I criteri di ammissibilità e le procedure di screening dei partecipanti hanno un valore indiscutibile nella progettazione di un trial, in quanto necessari per ottimizzarne il rendimento scientifico e per massimizzarne la sicurezza. Tuttavia, se eccessivamente rigidi e numerosi, è indubbio che possano aumentare i costi e la complessità del processo, ostacolare l'iscrizione dei pazienti e diminuire la generalizzabilità dei risultati. Sempre negli Stati Uniti, le indagini condotte intorno al 1990 hanno dimostrato che, nel corso dei 25 anni precedenti, i requisiti di ammissibilità alle sperimentazioni cliniche erano costantemente incrementati e divenuti sempre più restrittivi. Da quel momento, varie organizzazioni nazionali, come l'Institute of Medicine, il National Cancer Institute e l'American Society of Clinical Oncology, hanno deciso di aderire alla richiesta di una maggiore semplificazione degli studi clinici sui tumori.
Con l'obiettivo di valutare le tendenze contemporanee in merito ad inclusività e complessità dei trial sul cancro, un team di esperti dello UT Southwestern Medical Center (Texas, USA) ha analizzato 74 studi clinici sui tumori polmonari, studi che sono stati sponsorizzati dal National Cancer Institute degli Stati Uniti e condotti nell'arco di un periodo compreso tra il 1986 e il 2016. Da ognuna delle sperimentazioni esaminate sono stati estrapolati i criteri di inclusione ed esclusione, che sono stati quantificati e classificati in base alla tipologia (criteri legati a requisiti amministrativi, a comorbilità, a trattamenti precedenti e a parametri di malattia misurabili).
I risultati dell'indagine, pubblicati di recente sulla rivista Journal of Thoracic Oncology, rivelano che i criteri di esclusione negli studi clinici sui tumori al polmone sono aumentati di circa il 60% nel trentennio 1986-2016. Inoltre, tali criteri hanno subito un incremento costante nell'arco del tempo: da un numero mediano di 16, rilevato tra il 1986 e il 1995, si è passati a 19, nel periodo 1996-2005, e a 27, nel periodo 2006-2016. “Negli Stati Uniti, da circa 10 anni, è stata avanzata la richiesta di semplificare l'ammissibilità e le procedure inerenti alle sperimentazioni cliniche. Tuttavia, appare chiaro come gli ostacoli alla partecipazione dei pazienti non siano soltanto rimasti, ma addirittura aumentati. Eppure un cambiamento è necessario", spiega il dott. David Gerber, uno dei principali autori dell'analisi, co-direttore dello UT Southwestern’s Experimental Therapeutics Program.
L'aspetto più preoccupante evidenziato dall'indagine è che l'incremento dei criteri di esclusione si è quasi unicamente verificato negli studi sui trattamenti farmacologici, ossia nell'ambito di ricerca che sta mostrando, in questi ultimi anni, le prospettive più promettenti per i malati di tumore. In parte, il dato è comprensibile. Infatti, con l'avvento di approcci terapeutici innovativi, è ovvio che emerga anche una serie di nuove preoccupazioni mediche correlate a questi trattamenti, preoccupazioni che implicano necessariamente l'aggiornamento dei criteri di esclusione. Se consideriamo, ad esempio, uno studio su una nuova immunoterapia anticancro, un'eventuale storia di malattia autoimmune nei pazienti potrebbe rappresentare un valido criterio di esclusione, pur non essendo stata considerata tale in altre sperimentazioni passate, come quelle relative ai regimi chemioterapici convenzionali. Il problema, come spiegano gli autori dell'indagine, risiede nel fatto che i criteri di esclusione aggiunti nel tempo si sono andati a sommare ai precedenti, senza che venissero contemporaneamente tolti quelli non più necessari.
Sono gli stessi ricercatori a sottolineare come la tendenza all'aumento indiscriminato dei criteri di esclusione renda sempre più difficile condurre le sperimentazioni cliniche, un danno ancora più grande se si considera l'elevato potenziale di avanzamento mostrato dalle nuove strategie di cura. "Poiché i criteri di ammissibilità diventano sempre più restrittivi, l'applicabilità dei risultati di studio alla popolazione generale dei pazienti può essere problematica", spiega il prof. David Johnson, del Dipartimento di Medicina Interna dello UT Southwestern Medical Center. "Tutto questo, alla fine, si traduce in una crescente incertezza per il medico curante, a cui spetta la responsabilità di doversi occupare dei malati nell'ambiente reale".