L'indagine, diretta dalla prof.ssa Sabrina Giglio, ha approfondito la relazione tra origine genetica e presentazione clinica della malattia
Per certe malattie rare lo spazio nei libri di genetica non va oltre una misera paginetta dal momento che le conoscenze disponibili sull’argomento sono rare quanto la patologia stessa. Ciò conferisce un valore unico alle ricerche condotte da gruppi di studio come quello guidato dalla prof.ssa Sabrina Giglio, Direttore dell’Unità di Genetica Medica dell’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze, che dalla più ampia casistica di pazienti italiani affetti da acidosi tubulare renale distale (dRTA) ha saputo estrarre informazioni grazie a cui sarà possibile rivedere il sapere oggi a disposizione su questa rara e incompresa malattia.
LA MALATTIA: GENETICA E SINTOMATOLOGIA
Il corretto mantenimento della funzione renale viene stabilito dalla capacità di differenti pompe renali, situate in diverse parti del tubulo, di riassorbire o secernere vari tipi di ioni. Il tratto distintivo dell’acidosi tubulare renale distale (dRTA) è l’acidosi metabolica scatenata da un difetto nel funzionamento di una di queste pompe, chiamata H+ATPasi, attraverso la quale generalmente vengono smaltiti nelle urine gli ioni H+ e riassorbiti gli ioni HCO3-. Questo passaggio di acidificazione delle urine si svolge nella frazione terminale del tubulo renale che favorisce la filtrazione renale. “Nell’acidosi tubulare renale distale, l’H+ATPasi che permette di eliminare gli ioni H+ e riassorbire gli ioni HCO3- non funziona”, spiega la prof.ssa Giglio. “Sono state descritte tre forme ereditarie, ciascuna causata da uno specifico difetto di differenti subunità di tali pompe: una forma autosomica dominante che esordisce negli adolescenti e nei giovani adulti, di solito dovuta a mutazioni del gene SLC4A1 (localizzazione cromosomica 17q21.31), uno scambiatore di ioni bicarbonato (HCO3-) e Cloro. Questa forma implica un 50% di rischio di trasmettere la malattia alle generazioni future. Poi ci sono due forme autosomiche recessive, diagnosticate spesso nei neonati e nei bambini piccoli, e riconducibili ad alterazioni del gene ATP6V0A4 (7q34) o del gene ATP6V1B1 (2p13), che codificano, rispettivamente, le subunità B1 e a4 della pompa. La forma dovuta a alterazioni in ATP6V1B1 è sovente associata a una sordità profonda da danno nervoso (neurosensoriale) che per la sua gravità viene diagnosticata nelle prime fasi della vita. Nelle forme recessive perché la malattia si manifesti tutti e due i genitori devono essere portatori della mutazione nei geni indicati, con un rischio di malattia nel 25% della prole”.
Nella forma pediatrica classica i bambini presentano vomito continuato, diarrea o stipsi. Non riescono a mangiare, perdono l’appetito o producono un maggior quantitativo di urina. Spesso hanno molta sete con una maggiore tendenza ad introdurre liquidi. Tendono ad essere molto deboli e affaticati e, quando la malattia insorge così presto, subiscono un notevole ritardo nella crescita. Inoltre, si sa che uno dei sintomi presenti in oltre l’80% dei bambini è la sordità. La perdita di calcio nelle urine (ipercalciuria) favorisce l’insorgenza di calcoli urinari e la deposizione di sali di calcio nel rene (nefrocalcinosi) e impoverisce l’osso di sali di calcio, con ritardo della crescita e rachitismo nei bambini, o carenza di calcificazione e debolezza della matrice ossea (osteopenia o osteomalacia) negli adulti.
L’insufficienza renale e la fragilità ossea costituiscono dunque due serie problematiche che il paziente con acidosi tubulare renale distale può trovarsi ad affrontare in età adulta con una sensibile diminuzione della qualità di vita e un concreto aumento del tasso di ospedalizzazione. Per tale ragione risulta prioritario fare chiarezza sui meccanismi che portano allo sviluppo della patologia e sulle correlazioni genotipo-fenotipo da essa stabilite. Il gruppo di ricerca del Meyer si è posto l’obiettivo di indagare in modo più approfondito la relazione tra assetto genetico ed espressione clinica della malattia (genotipo e fenotipo) e di caratterizzare con precisione i difetti genetici alla base dell’alterata funzionalità delle pompe ioniche.
LA CASISTICA TOSCANA
“Abbiamo studiato circa un centinaio di pazienti, in una fascia d’età che va da pochi mesi di vita fino ai 40 anni”, specifica Giglio, riferendosi alla casistica raccolta negli anni all’Ospedale Meyer. “La maggior parte sono bambini affetti dalla malattia grave suscitata dalle varianti recessive. La letteratura scientifica sull’argomento ci dice che se il bambino presenta sordità sin dalla tenera età quando è coinvolta la subunità B1 (quindi la mutazione interessa il gene ATP6V1B1), altrimenti se la sordità compare più tardi la subunità coinvolta è a4 (quindi il gene coinvolto è ATP6V0A4). In realtà ci siamo accorti che questa differenza non è sempre evidente perché abbiamo molti bambini con sordità precoce importante anche quando è interessata la seconda subunità. Infatti, abbiamo dimostrato che alcune varianti nel gene ATP6V0A4 determinano un allargamento dell’acquedotto vestibolare dell’orecchio interno, con conseguente precoce sordità (in alcuni casi già dai primi mesi di vita). Perciò di certo non sono sintomi come la sordità o la nefrocalcinosi a stabilire le differenze. Il test genetico è l’unico strumento che offre informazioni valide per la diagnosi individuale e una puntuale conoscenza della malattia”.
In queste situazioni il test genetico offre informazioni davvero preziose: la familiarità è stata verificata anche nei nuclei familiari di etnia caucasica, smentendo dunque la concezione tradizionale che vedeva una maggiore prevalenza delle forme familiari nella penisola arabica e nell’Africa Settentrionale in ragione dell’elevata consanguineità. “Abbiamo dimostrato che in Italia vi sono diversi casi di eterozigosi composta, cioè casi in cui il gene mutato è lo stesso ma il padre possiede un certo tipo di mutazione e la madre ne ha un’altra”, aggiunge l’esperta. “Ciò significa che non tutti i pazienti sono uguali. Questa malattia è molto più frequente di quanto atteso ed è sottodiagnosticata, perché spesso non riproduce il fenotipo classico e diventa difficile da scovare anche dal punto di vista clinico”.
La prof.ssa Giglio e il suo gruppo di lavoro, in collaborazione con la prof.ssa Paola Romagnani, dell’Unità di Nefrologia dell’Ospedale Pediatrico Meyer, hanno già pubblicato un articolo sulla rivista Kidney International che esplora nuovi aspetti della fisiopatologia della malattia e pone l’accento sull’importanza di seguire i pazienti anche in età adulta. “L’aspetto più interessante e innovativo che abbiamo portato all’attenzione della comunità scientifica in questo lavoro riguarda la fisiopatologia”, precisa Giglio. “Abbiamo riscontrato l’insufficienza renale cronica in circa un terzo circa dei pazienti con diagnosi genetica confermata. Questa frequenza elevata e decisamente superiore a quanto atteso, è una riprova di quanto osservato nella nostra esperienza clinica, seguendo a volte i piccoli pazienti ben oltre l’età pediatrica e fino alla transizione nell’età giovane-adulta: l’acidosi tubulare renale distale è, infatti, una condizione potenzialmente invalidante a lungo termine”.
TRATTAMENTO E NUOVI SPUNTI DI RICERCA
“Al momento la patologia viene curata con la somministrazione di bicarbonato ritenendo che ciò possa essere utile ma, probabilmente, c’è una differenza nella risposta terapeutica perché il bicarbonato alla fine ‘tampona una situazione’ che non sarà realmente curativa per le possibili conseguenze nell’età adulta”, prosegue Giglio. “La terapia alcalina tratta i sintomi come l’acidosi ma non corregge il difetto alla base della malattia. Questo risultato, in grado di incidere sulla prognosi, si può ottenere solo con interventi che ripristino la funzionalità dei meccanismi tubulari di trasporto ionico. Per troppo tempo a questa malattia non è stato attribuito il giusto peso clinico ma oggi vediamo che quasi tutti i pazienti che ne soffrono intorno ai 40 anni cominciano ad andare incontro a insufficienza renale perciò è prioritario sensibilizzare medici e pazienti sul valore di una diagnosi precoce”.
Inoltre, i ricercatori fiorentini hanno deciso di studiare tutti i pazienti con un sospetto di tubulopatia distale attraverso l’intero sequenziamento della parte codificante del DNA (esoma) per andare a indagare in maniera più approfondita ciascun caso, finendo con lo scoprire che a volte quelle che si pensa possano essere forme distali sono altre forme di malattia e che interessano altre pompe. I sintomi prodotti sono gli stessi dell’acidosi tubulare renale distale ma clinicamente e geneticamente si tratta spesso di altre malattie che ne mimano il comportamento. “In tal caso iniziare una terapia col bicarbonato non ha più senso perché il paziente non risponderà all’acidosi”, conclude Giglio. “Sapere esattamente quale sia la proteina e quindi la pompa alterata serve a identificare molecole che possano essere più efficaci per contrastare l’evoluzione della malattia in età adulta”. Presto sarà pubblicato dallo stesso gruppo uno specifico lavoro su questo argomento, a dimostrazione che la mappa dei confini dell’acidosi tubulare renale distale è ancora da tracciare.
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