Un'associazione per l’emimelia tibiale

Intervista ad Alessandra Lolli, presidente dell’Associazione “Stelle ai piedi” ETS per le malformazioni ossee e l’emimelia tibiale, che fa parte dell'Alleanza Malattie Rare

Regina ha tre anni e una malattia rara di cui in Italia si sa ancora troppo poco: l’emimelia tibiale. L’emimelia è una malformazione congenita caratterizzata dalla mancanza di alcuni segmenti ossei, soprattutto degli arti, che causa la malformazione di braccia e gambe, nello specifico un accorciamento dell’arto e una deformità del piede. Il percorso per correggere queste anomalie è complesso, lungo e costoso. Ma il padre e la madre di Regina non si sono fermati. Hanno avviato una raccolta fondi che in poche settimane ha fatto il giro del web, accendendo l’attenzione e raccogliendo tante dimostrazioni di affetto e solidarietà. Per questo hanno dato vita alla onlus “Stelle ai piedi”, con l’obiettivo iniziale di sostenere le spese mediche per Regina.

Ma lo sguardo è andato oltre, perché l’intenzione è far crescere l’associazione, affinché possa diventare un punto di riferimento anche per altri bambini con malformazioni ossee congenite simili a quella di Regina. Non solo: la prospettiva è anche quella di contribuire a migliorare la formazione ortopedica in Italia, affinché un giorno nessuna famiglia si trovi più a navigare nel buio. OMaR ha intervistato Alessandra Lolli, mamma di Regina e presidente di “Stelle ai piedi”.

Perché nasce Stelle ai piedi e qual è la sua missione?

L’associazione nasce da una storia personale, o meglio, come mi piace dire, da qualcosa che sento “sotto pelle”. Perché riguarda mia figlia Regina, che oggi ha tre anni e mezzo ed è nata con una rara malformazione ossea alla tibia, l’emimelia tibiale. È una condizione che ha un’incidenza di circa uno su un milione di nati vivi. È associata, nel suo caso, anche a un’ipoplasia della gamba e a un piede torto di terzo grado. Un quadro complesso. A me non piace definire queste condizioni con la parola “malattia”, ma è così che la chiamano: la malattia rara che non fa crescere gli arti ai bimbi. È qualcosa che segna in modo profondo i bambini e le loro famiglie. L’idea iniziale era raccogliere fondi per il percorso medico di Regina, perché non si tratta di un solo intervento: serviranno operazioni, fisioterapia, riabilitazione e viaggi all’estero. Ma fin da subito ho sentito che non bastava. “Stelle ai piedi” vuole anche fare informazione, formazione e creare una rete per le famiglie. Vorrei che l’emimelia tibiale smettesse di essere “rara” almeno per quanto riguarda la conoscenza. Purtroppo in Italia, attualmente, i medici sanno pochissimo di questa patologia. E spesso, l’unica soluzione proposta è l’amputazione dell’arto. Non perché sia inevitabile, ma perché non esistono competenze specifiche, né linee guida, né protocolli consolidati. Oppure propongono decine di interventi che non portano a nulla, come è successo a una ragazza di Carpi, che dopo dieci operazioni non risolutive ora, a 13 anni, deve affrontare comunque l’amputazione.

Qual è stata la vostra esperienza?

All’inizio ci siamo rivolti a un grande istituto ortopedico, uno dei più rinomati in Italia. Ma ci è voluto più di un anno per avere una diagnosi. E se fossimo rimasti lì, oggi Regina non camminerebbe. Si erano rifiutati di intervenire, temendo una recidiva precoce. Fortunatamente, abbiamo incontrato il dottor Silvio Boero, ex primario di ortopedia pediatrica al Gaslini, oggi in pensione. È stato lui a operare Regina e grazie a lui oggi cammina. Ha un ausilio ortesico, certo, ma cammina. E non è poco.

Come si interviene in questi casi?

La malformazione fa sì che l’osso colpito cresca più lentamente. Quindi, si crea una differenza in centimetri tra le due gambe. Nel caso di Regina ci saranno almeno due allungamenti ossei, una ricostruzione dei legamenti del ginocchio e una correzione del piede torto. Parliamo di un percorso lungo, che richiede grande competenza e continuità terapeutica. Il problema è che in Italia questa continuità non esiste. Gli ospedali non riescono a garantire tutto il pacchetto: chirurgia, fisioterapia, controlli radiografici, follow-up. E questo tipo di patologia ha bisogno proprio di un progetto integrato, senza interruzioni.

Esistono esperienze migliori all’estero?

Sì, esiste un centro in Florida diretto dal dottor Dror Paley, che ha sviluppato un protocollo specifico per l’emimelia tibiale. Dal 1996 applica una tecnica chirurgica e riabilitativa precisa, con risultati concreti e prevedibili. Ti visita, valuta la situazione e ti dice esattamente quanti interventi serviranno da lì alla fine della crescita. Non si tratta di tentativi, ma di un percorso collaudato. L’intervento di Regina lo farà lui. Rimarremo tre mesi in Polonia (sede europea del Paley Insitute) per garantire non solo l’operazione ma tutta la fase post-operatoria, affidata a clinici formati da lui. Anche la fisioterapia, la gestione del fissatore esterno, le radiografie da fare a intervalli precisi: tutto è previsto nel protocollo. E questo fa la differenza.

In Italia non esiste nulla di simile?

Purtroppo no. Da noi non c’è ricerca, non ci sono centri specializzati, non esistono protocolli. Non c’è nemmeno un registro dei casi. Ogni bambino è considerato un’eccezione, un caso a sé. Noi, ad esempio, abbiamo fatto una consulenza genetica a Reggio Emilia: sono state escluse le cause genetiche, ma da lì in poi nulla. Nessuno sta cercando di capire perché queste malformazioni avvengano. Non si studiano, non si classificano, non si condividono i dati. Esiste solo un medico britannico, il dottor Turnpenny Peter, della Royal Devon University Healthcare NHS Foundation Trust, che sta portando avanti uno studio, cui abbiamo dato l’autorizzazione a usare i dati di Regina per la sua ricerca. Ma è un’iniziativa individuale e all’estero.

È possibile la diagnosi prenatale dell'emimelia tibiale?

Sì, si può, ma solo in fase avanzata e solo se si sa cosa cercare. A me avevano parlato solamente del piede torto. Dell’emimelia tibiale non si era accorto nessuno. Anche gli screening neonatali e i test sul DNA fetale non includono questa condizione, perché è troppo poco conosciuta. Succede, allora, che famiglie scoprono tutto al momento della nascita, senza alcuna preparazione, e magari si ritrovano a prendere decisioni difficili, perfino a valutare un’interruzione di gravidanza, senza avere informazioni chiare e affidabili.

Il problema è anche culturale?

Sia culturale sia, soprattutto, economico. Culturale perché la mancanza di informazione porta a non consentire alle famiglie di avere gli strumenti per comprendere e, di conseguenza, garantire ai propri figli le cure migliori. E se non si hanno le capacità di destreggiarsi e farsi luce da soli, i bimbi vedono fortemente compromesse le loro possibilità di camminare e di avere una vita piena e autonoma. Economico perché il percorso ha un costo altissimo: interventi, viaggi, riabilitazione e non tutte le famiglie possono permetterselo. Ecco perché l’associazione vuole diventare un punto di riferimento. Per dare informazioni, supporto, fare rete. Per non lasciare nessuno da solo, come è successo a noi. Credo poi che dare un nome alle cose sia il primo passo per affrontarle. Quando nessuno ti sa dire cosa hai davanti, tutto è più difficile. E invece questi bambini hanno una grinta straordinaria. Hanno voglia di vivere, di camminare, di fare tutto. Ma devono essere messi in condizione di farlo.

L'associazione "Stelle ai Piedi" fa parte dell'Alleanza Malattie Rare, tavolo tecnico permanente di cui fanno parte più di 430 associazioni di pazienti di I e II livello.

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