Lo conferma il follow-up triennale dello studio di fase III COMFORT-II, presentato all’ultimo congresso della EHA. Per il futuro, si studiano le terapie combinate
Dopo l’efficacia già dimostrata in studi precedenti, che avevano spinto la Commissione Europea ad approvare ruxolitinib come trattamento sintomatico della mielofibrosi poco più di un anno fa, la terapia con l’inibitore di JAK 1 e JAK 2 migliora la sopravvivenza dei pazienti anche nel lungo termine.
Il follow-up dello studio COMFORT-II, trial clinico di fase III per valutarne l’efficacia in confronto alla terapia tradizionale, è durato tre anni e l’analisi dei risultati raccolti è stata presentata in occasione dell’ultimo Congresso dell’European Hematology Association (EHA), tenutosi a Stoccolma.
Nel gruppo di pazienti sottoposti a terapia orale con ruxolitinib, infatti, è stata osservata una riduzione del rischio di morte del 52% e una probabilità stimata di sopravvivenza globale significativamente maggiore a tre anni dall’inizio della terapia. Inoltre nel 51,4% dei pazienti trattati con l’inibitore di JAK-1 e JAK-2 si è riscontrata una riduzione delle dimensioni della milza del 35%.
La splenomegalia è una delle principali manifestazioni della mielofibrosi, un tumore raro caratterizzato da una proliferazione incontrollata delle cellule del midollo osseo. In Italia, ogni anno, si contano solo 0.5-1.5 nuovi casi su 100 mila abitanti.
Alla base della malattia alcuni difetti genetici, di cui nota una mutazione sul gene JAK2 che produce una proteina ad attività tirosin-chinasica. Quando difettosa, quest’ultima interferisce con la produzione di cellule del sangue funzionanti, tra cui globuli bianchi, piastrine e globuli rossi. Oltre all’ingrossamento della milza, i pazienti sono soggetti a grave anemia e, quando la malattia è in stadio avanzato, a fibrosi del midollo osseo.
Ruxolitinib inibisce l’iperattività della tirosin chinasi difettosa, contribuendo al controllo dei sintomi. Dall’analisi esplorativa di una sperimentazione separata di fase I/II con ruxolitinib rispetto a controlli storici di pazienti trattati con terapia tradizionale, è emerso che il farmaco agisce anche sulla fibrosi midollare: dopo quattro anni di trattamento, nel 22% dei pazienti è migliorata e nel 52% si è stabilizzata.
Ruxolitinib rientra nella cosiddetta ‘target therapy’, ovvero molecole capaci di agire direttamente su un meccanismo chiave coinvolto nella manifestazione della malattia. Sebbene sia efficace sull'alterazione di JAK-1 e JAK-2, non è in grado di debellare la malattia: si ritiene, infatti, che l'anomalia di queste tirosin-chinasi sia secondaria nella patogenesi della mielofibrosi, e resta ancora sconosciuto il meccanismo di insorgenza primario.
“Sebbene la quantità delle cellule che portano la mutazione del gene JAK2 non cambi molto sotto trattamento con ruxolitinib, esiste però una sottocategoria di pazienti nei quali la riduzione della carica allelica invece è più importante ed è associata a una maggiore probabilità di riduzione marcata della splenomegalia – commenta Alessandro Vannucchi del Reparto di Ematologia dell’Università di Firenze e principale autore dello studio su ruxolitinib - Un campo promettente è la possibilità di usare combinazioni di farmaci, come l’inibitore di JAK-2 con farmaci che agiscono a livello epigenetico oppure con farmaci che interferiscono nella via della P3 chinasi. Riguardo a queste possibilità sono stati presentati dei risultati da modelli preclinici.”
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