PFIC, intervista al dottor Viganò
Dottor Mauro Viganò

Il dr. Mauro Viganò: “La patologia non va più considerata ad esclusivo interessamento pediatrico: andrebbe perciò sospettata in tutti i pazienti con prurito e alterazione degli indici di colestasi”

Bergamo – PFIC è un acronimo che sta per colestasi intraepatica familiare progressiva, una patologia estremamente rara che può presentarsi in ben tredici forme. Della PFIC nei bambini si conosce già molto: è una malattia che ha un esordio precoce e una rapida progressione, si caratterizza per un prurito incoercibile e può portare alla cirrosi e all'insufficienza epatica terminale, con frequente necessità di trapianto di fegato. Solo recentemente, invece, si sta iniziando a comprendere meglio questa condizione nell'adulto, le cui manifestazioni possono essere molto più subdole.

Nel bambino questa malattia è causata dalla presenza di mutazione in entrambe le copie di specifici geni (omozigosi), con conseguente alterata produzione o funzione di alcune proteine che regolano la secrezione/escrezione degli acidi biliari. Nell'adulto, invece, in questi anni abbiamo compreso che spesso basta la presenza di un solo gene malato (eterozigosi) per dare alterazioni biochimiche significative e sintomi come prurito o malattia epatica senza che vi sia stata alcuna avvisaglia di PFIC in epoca pediatrica o neonatale”, spiega il dr. Mauro Viganò, dell'Unità di Gastroenterologia 1 – Epatologia e Trapiantologia dell'ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo.

“Per quanto riguarda la frequenza della colestasi intraepatica familiare progressiva, abbiamo qualche numero nel 'mondo pediatrico': circa un caso su 50-100mila nati. In realtà sono convinto che la malattia causata da alterazioni genetiche allo stato di eterozigosi sia molto più frequente nell'adulto. Si tratta spesso di pazienti in cui la presenza del difetto genico patologico non ha comportato in età pediatrica segni e sintomi di malattia epatica che, tuttavia, possono emergere in età giovane o adulta. Il vero obiettivo dell'epatologo dell'adulto, oggi, è conoscere e saper riconoscere questa patologia per far emergere il sommerso, e ciò non è semplice perché le manifestazioni cliniche e biochimiche della PFIC possono essere un po' più sfumate in età adulta rispetto a quanto accade nei pazienti pediatrici”, prosegue l'esperto.

Dottor Viganò, sappiamo che il sintomo principale della PFIC è il prurito. Quali possono essere le altre manifestazioni nel paziente adulto?

Il prurito, anche nell'adulto, in alcuni casi è davvero incoercibile e intrattabile, come nelle forme più conclamate di malattia pediatrica o neonatale, e compromette gravemente la capacità dei pazienti di condurre una vita normale, impattando negativamente sulle relazioni sociali e affettive e sull'attività lavorativa. È un prurito costante che non abbandona mai il paziente, ed è il sintomo a cui il clinico deve fare più attenzione: un paziente con prurito, infatti, pensa di avere un problema dermatologico o allergologico, piuttosto che epatico. Ci sono poi altre manifestazioni cliniche, come la spossatezza, l'astenia, un malessere generale, il dimagrimento e la presenza dell'ittero, ovvero la colorazione gialla della cute o delle mucose. Generalmente ci sono delle alterazioni negli esami della colestasi, con un incremento della fosfatasi alcalina, della bilirubina, delle transaminasi e, in pochi casi, anche della gamma glutamil transpeptidasi (GGT). Ma un fatto essenziale ai fini della diagnosi è che la maggior parte di queste forme di PFIC si caratterizza per avere valori di GGT normali, mentre questo enzima è spesso alterato nei pazienti con malattie epatiche colestatiche. In un clinico che vede un paziente con segni e sintomi di epatopatia ma con una GGT normale dovrebbe quindi accendersi un campanello d'allarme e si dovrebbero mettere in atto ulteriori accertamenti per la conferma diagnostica della PFIC, tra cui anche il test genetico. Per capire meglio questa malattia, infatti, è utile indagare dal punto di vista genetico sia il paziente che i familiari (genitori e/o figli)”.

Nella PFIC il prurito a volte è così terribile da poter essere un'indicazione al trapianto di fegato, e fino a pochi anni fa non esistevano terapie indicate…

“Sì, io lavoro da anni in un centro trapianti e i pazienti affetti da PFIC, fino a poco tempo fa, non avevano alcuna terapia che lenisse questo prurito incoercibile, che impatta negativamente sul sonno, sul rendimento scolastico, sulla vita di relazione e anche sulla quotidianità di genitori e fratelli. Tutto questo oggi è cambiato, grazie al fatto che anche in Italia è disponibile un nuovo farmaco per il trattamento della patologia: odevixibat, un IBAT-inibitore, ossia un inibitore del riassorbimento degli acidi biliari a livello di una parte dell'intestino che si chiama ileo. Gli acidi biliari sono tossici: nella PFIC si accumulano nelle cellule epatiche, passano nel torrente circolatorio e si depositano nella cute causando il prurito. Quando questo sintomo è ingestibile, in alcuni casi si opta per un intervento chirurgico chiamato “diversione biliare”: in pratica si fanno delle derivazioni che impediscono al flusso della bile prodotta nel fegato di giungere nell'intestino, ma sono interventi gravati da eventi avversi anche severi e con scarsa risposta. Oggi però ci sono gli IBAT-inibitori che, attraverso il loro meccanismo d'azione, vanno a bloccare il recettore intestinale che riassorbe gli acidi biliari e che si trova nell’ileo, favorendo l'eliminazione di tali acidi attraverso le feci: avere a disposizione questo tipo di farmaci è stata una rivoluzione”.

Quindi, finalmente, ci saranno sempre meno interventi di diversione biliare e sempre meno trapianti di fegato?

“La speranza è quella. Gli interventi di diversione biliare oggi non hanno più ragione di essere eseguiti, perché abbiamo una terapia medica, assunta per via orale, che impedisce il riassorbimento degli acidi biliari e il loro ritorno al fegato attraverso il circolo venoso portale. Il nostro obiettivo è di andare a migliorare la storia naturale di questa malattia riducendo l'azione tossica degli acidi biliari che tornano al fegato, evitandone l'accumulo e migliorando così anche la funzione epatica. Ma la cosa ancora più importante è che con questi farmaci risolviamo il prurito, migliorando la qualità di vita dei pazienti, siano essi pediatrici o adulti. Alcuni studi hanno addirittura dimostrato che il ricorso al trapianto è significativamente diminuito tra coloro i quali, sottoposti a terapia con odevixibat, hanno avuto un beneficio clinico dal farmaco. Odevixibat è stato sviluppato nel setting pediatrico, anche se negli studi registrativi sono stati arruolati alcuni pazienti adulti. Tutta la conoscenza sull'efficacia e sicurezza di questo farmaco, documentata in studi di lunga durata chiamati “open-label extension”, verrà ulteriormente supportata nei prossimi mesi anche da studi di pratica clinica. Quest’ultime indagini, condotte nei principali centri epatologici italiani, saranno fondamentali per documentare l'efficacia del farmaco anche nell'adulto. Ad oggi non esiste un registro nazionale sulla PFIC, ma si sta cercando di implementarlo perché è fondamentale, per i decisori e i regolatori, ma anche per i medici, capire meglio l'epidemiologia, la presentazione clinica e il decorso della malattia, comprendendone l'andamento clinico dopo l'avvio della terapia con IBAT-inibitori”.

Quanti pazienti adulti con PFIC sono attualmente in cura nel suo centro?

“L'ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo ha una vasta esperienza nell'utilizzo degli IBAT-inibitori nell'adulto con PFIC: ad oggi abbiamo trattato otto pazienti, ottenendo dei buoni risultati. Abbiamo poi altri sei pazienti in fase di valutazione, che stiamo mantenendo in follow-up o per i quali attendiamo i risultati dei test genetici. È fondamentale, però, ricordare che nell'adulto le varianti nei geni noti per essere alla base della PFIC – spesso in forma eterozigote – sono in alcuni casi di incerto significato patogenetico, ed è per questo che la presentazione e l'andamento clinico della malattia rimangono di estrema importanza per l'avvio del trattamento con odevixibat. Inoltre, è bene che questi pazienti vengano gestiti in centri esperti che prevedano la presenza di un team multidisciplinare, composto da genetisti, istologi ed epatologi, e che abbiano la possibilità di prescrivere questo IBAT-inibitore. La conoscenza delle PFIC è sempre stata un po' di nicchia, appannaggio degli epatologi pediatrici; ora che disponiamo di una terapia efficace, tale conoscenza deve essere sempre più disseminata sia tra gli epatologi dell'adulto che tra i medici di medicina generale, anche perché stiamo scoprendo che le colestasi genetiche possono interessare molti più pazienti di quanto ritenuto fino ad oggi, e che, purtroppo, alcune forme di malattia sono a maggior rischio di comparsa di tumori epatici come l'epatocarcinoma o il colangiocarcinoma”.

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