Uno studio su DAAT e declino polmonare

Questa popolazione di pazienti è quella che trae maggior beneficio dalla terapia enzimatica sostitutiva. Ciò riporta l’attenzione sul tema della diagnosi precoce

Nel 1963, quando Carl-Bertil Laurell e Sten Eriksson, due ricercatori del Dipartimento di Scienze dell’Università di Lund (Svezia), pubblicarono la prima descrizione del deficit di alfa-1-antitripsina (DAAT), il mondo scientifico era completamente proiettato nella ricerca di una cura contro il cancro: era in partenza il primo trial in cui si testava un cocktail di farmaci per la leucemia mentre si profilava il dibattito sulla correlazione tra insorgenza del cancro al polmone e fumo di sigaretta, una cattiva abitudine che a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta aveva raggiunto livelli di diffusione altissimi sia in Europa che negli Stati Uniti. Tuttavia, nessuno immaginava che l’abitudine al fumo potesse rappresentare un fattore di rischio anche per le persone affette da DAAT, condizione che, negli anni, si è rivelata in grado di predisporre a patologie respiratorie ed epatiche.

Prima della fine degli anni Sessanta, infatti, la correlazione tra DAAT ed enfisema polmonare divenne evidente, ma a sbloccare le conoscenze sul deficit di alfa-1-antitripsina hanno contribuito i test genetici grazie ai quali è stato possibile individuare le più di 150 mutazioni del gene SERPINA1 che determinano questa condizione. In particolare, gli individui omozigoti per la variante Z di questo gene e quelli eterozigoti ma con due alleli di SERPINA1 deficitari sono tra quelli a maggior rischio di sviluppare patologie respiratorie (anche se non fumatori), mentre gli eterozigoti semplici, con un allele sano e uno deficitario, sono esposti a un minor rischio (un fatto che comunque non li esenta dal rinunciare all’abitudine al fumo). Vista tale differenza, i medici hanno iniziato a chiedersi quali delle persone affette da DAAT fosse effettivamente necessario sottoporre alla terapia di sostituzione enzimatica indicata per la patologia, disponibile già dalla metà degli anni Ottanta.

Valutare in quali pazienti con DAAT si svilupperà una vera e propria patologia, ad esempio respiratoria, non è semplice, dal momento che il deficit di alfa-1-antitripsina è una condizione rara e che è complicato monitorarne la progressione nel tempo. Ciononostante, la comunità degli pneumologi concorda sul fatto che quanti presentano broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), asma bronchiale o bronchiectasie dovrebbero sottoporsi alle analisi necessarie per accertare se all’origine del loro problema possa esserci un deficit di alfa-1-antitripsina.

In questo quadro si capisce come gli studi randomizzati siano difficili da realizzare ed occorra perciò affidarsi alle informazioni che emergono dai trial longitudinali in real world, come quello pubblicato sull’American Journal of Respiratory and Critical Care Medicine, condotto da un gruppo internazionale di ricercatori e pneumologi che ha valutato 615 persone con DAAT grave provenienti da tre Paesi del continente europeo (Irlanda, Svizzera e Austria) nei quali sono differenti i criteri di accesso alla terapia sostitutiva con l’enzima alfa-1-antitripsina.

Secondo quanto si legge, i partecipanti allo studio erano affetti da un DAAT severo (la combinazione genotipica includeva almeno una mutazione Z, ma il 97,7% degli arruolati aveva un genotipo omozigote ZZ); inoltre, gli autori hanno effettuato un’interessante suddivisione degli individui arruolati in due gruppi, rispettivamente “Lung index” e “Non-lung index”: nel primo gruppo sono state inserite le persone sottoposte al test per la ricerca del deficit di alfa-1-antitripsina per motivi respiratori o in seguito al riscontro di un’ostruzione nel corso di una spirometria. I rappresentanti di questo gruppo (70% della casistica totale) erano perlopiù maschi (età media alla diagnosi circa 48 anni), ex fumatori, con un ridotto indice di FEV1 (cioè il volume massimo espirato dal paziente durante il primo secondo di un’espirazione forzata), comune in patologie quali asma e BPCO. Si tratta di una differenza non secondaria, perché fin da subito l’analisi dei dati ha messo in rilievo una differenza tra gli individui dei gruppi Lung index e Non-lung index: infatti, nei pazienti del gruppo Lung index il declino di FEV1 è risultato più rapido rispetto a quelli del gruppo Non-lung index e questo differente andamento è stato osservato in modo particolare nei più giovani (tra i 20 e 50 anni di età).

Spostando l’attenzione sulla terapia sostitutiva ma continuando a guardare il declino dei valori di FEV1 si può notare che il maggior effetto della terapia si è prodotto nei pazienti con BPCO in stadio GOLD 2 (Global Initiative for Chronic Obstructive Lung Disease), cioè con un valore di FEV1 compreso tra 50 e 80 per cento. Per quanto dallo studio emerga che l’FEV1 non è un parametro indicato per valutare l’efficacia della terapia enzimatica sostitutiva, esso può tuttavia rappresentare un’indicazione utile per l’avvio al trattamento, dal momento che fa parte degli indici restituiti dalla spirometria, cioè il test più semplice per la valutazione della funzionalità respiratoria e il punto di partenza per la diagnosi di condizioni come asma e BPCO.

Una delle criticità di cui non si parla mai abbastanza nel DAAT è proprio la difficoltà di fare diagnosi, giacché i test per la conferma di questa condizione vengono eseguiti in misura inferiore al dovuto (solo in una frazione dei pazienti con BPCO si indaga la presenza del deficit, a scapito del percorso terapeutico che, grazie alla terapia con infusioni di alfa-1-antitripsina, ridurrebbe il rischio di instaurarsi dell’enfisema polmonare). In alcuni casi la diagnosi di DAAT arriva con anni di ritardo, quando il decorso della malattia è già troppo avanzato e il declino della funzione polmonare ha raggiunto un livello stabilmente basso (nel DAAT quel che si perde non si recupera).

La terapia enzimatica sostitutiva ha prodotto conferme della concreta capacità di preservare la funzionalità polmonare, soprattutto nei pazienti con deficit grave o con una problematica cronica evidente. I risultati di questo studio ribadiscono quindi l’importanza di individuare per tempo le persone con deficit di alfa-1-antitripsina, in modo tale da avviare alla terapia sostitutiva quelle a maggior rischio prima che si instauri la BPCO, rallentando così il declino della funzione polmonare e migliorando la qualità di vita, ottimizzando al contempo la gestione delle risorse del servizio sanitario.

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