Continuano gli studi sull'orologio biologico, che hanno portato tre scienziati statunitensi a ottenere il Nobel per la Medicina. Ricercatori spagnoli hanno indagato le possibili alterazioni di questo meccanismo nella malattia di Huntington

Saragozza (SPAGNA) – Mai come in questo periodo il ritmo circadiano, ossia il comportamento dell'orologio biologico, è stato al centro dell'interesse medico e scientifico. Gli statunitensi Jeffrey C. Hall, Michael Rosbash e Michael W. Young, per aver scoperto i meccanismi molecolari che lo controllano, hanno vinto pochi giorni fa il Premio Nobel per la Medicina. I tre scienziati sono riusciti a scoprire il processo con il quale tutti gli esseri viventi, dalle piante agli esseri umani, riescono a regolare i loro ritmi biologici in sintonia con l'ambiente, ad esempio con il ciclo di alternanza tra giorno e notte conseguente alla rotazione della Terra.

Esaminando il DNA degli organismi più semplici e più studiati dai genetisti, i moscerini della frutta, i ricercatori sono riusciti a isolare il gene che regola questo comportamento universale. Hanno dimostrato, in particolare, che questo gene controlla la produzione di una proteina che si accumula nelle cellule durate la notte e che viene degradata durante il giorno. I tre studiosi hanno identificato anche una seconda proteina, altrettanto importante per far funzionare il meccanismo. In seguito a queste scoperte, siamo ora in grado di dire che i principi in base ai quali funziona l'orologio biologico sono gli stessi in tutti i viventi.

Il ritmo circadiano è sotto la lente d'ingrandimento della ricerca anche per i suoi rapporti con le malattie neurodegenerative: in chi ne è affetto, infatti, sono comuni i disturbi del sonno e dell'orologio biologico. Un chiaro esempio si può trovare nella malattia di Huntington (HD), un raro disturbo ereditario e neurodegenerativo che provoca una classica triade clinica, composta da disturbi motori progressivi (la còrea è il sintomo più caratteristico), compromissione cognitiva e manifestazioni psichiatriche.

Una ricerca spagnola, pubblicata sulla rivista Parkinsonism and Related Disorders, ha voluto indagare il rapporto fra le variazioni nel ritmo circadiano della pressione arteriosa e la qualità del sonno nei pazienti con HD. In uno studio multicentrico cross-sectional, 38 portatori di mutazioni Huntington (23 pazienti pre-sintomatici e 15 con malattia in fase precoce) sono stati confrontati con 38 soggetti sani di controllo, abbinati per età e sesso.

La pressione arteriosa è stata valutata tramite monitoraggio ambulatoriale, e sulla base della sua diminuzione percentuale notturna, i soggetti sono stati classificati come 'dippers' o 'non-dippers'. Durante la notte, infatti, è fisiologica una riduzione dei valori pressori, fenomeno che viene chiamato 'dipping'. Si definisce dipper l'individuo in cui la pressione sistolica media notturna ha una riduzione uguale o superiore al 10% rispetto alla media diurna, mentre se la riduzione è inferiore al 10% si parla di non-dipper.

La qualità del sonno e la sonnolenza diurna sono stati misurati, rispettivamente, con l'indice Pittsburgh Sleep Quality (PSQI) e con la scala Epworth Daytime Sleepiness (ESS). I punteggi relativi a questi indici sono stati successivamente correlati con i dati ricavati dal monitoraggio della pressione sanguigna.

Il 63% dei portatori di una mutazione Huntington è risultato essere non-dipper (l'86,7% dei pazienti sintomatici e il 47,8% dei pre-sintomatici), rispetto al 23,7% dei soggetti di controllo. Nel gruppo Huntington, la qualità del sonno è apparsa significativamente più compromessa (PSQI >5), con un'eccessiva sonnolenza diurna (ESS >9), rispetto al gruppo di controllo. Il non-dipping notturno, quindi, è stato associato a una peggiore qualità del sonno nei pazienti con HD, ma non nei soggetti di controllo.

Questi risultati mostrano che i pazienti con malattia di Huntington presentano precoci disturbi nel ritmo circadiano della pressione arteriosa, e che questa alterazione è associata a una scarsa qualità del sonno: fattori che sembrano suggerire il potenziale ruolo di una leggera disfunzione ipotalamica in questa popolazione di pazienti.

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