Gravidanza

Evelin è risultata positiva al test presintomatico per la patologia: nonostante ciò, non vuole rinunciare alla gioia di essere mamma

Si può scegliere di essere genitori sapendo di aver ereditato il gene che causa una patologia neurodegenerativa come la malattia di Huntington, che ha il 50% di probabilità di essere trasmessa ai figli? La risposta che ognuno di noi può dare a questa domanda non è scontata ma oggi, in simili circostanze, grazie alla diagnosi genetica pre-impianto e alla diagnosi prenatale, diventare genitori è possibile. Lo conferma la storia di Evelin, 35 anni, una ragazza giovane, esuberante e piena di vita che tra i progetti a breve termine ha anche quello di diventare madre e, per questo, si è sottoposta al protocollo di fecondazione necessario per fare in modo che il suo bambino non erediti la malattia di Huntington. Il suo compagno è al corrente della positività di Evelin al test presintomatico per la patologia e ha scelto di accompagnarla e starle accanto durante tutte le tappe di questo percorso.

I due si sono conosciuti proprio nel periodo in cui alla madre di Evelin è stata diagnosticata la Huntington. “Mia mamma aveva 58 anni quando sono insorti i primi sintomi”, ricorda Evelin. “Ha cominciato a cadere con una certa frequenza e all’inizio abbiamo preso la cosa senza troppa importanza, anche scherzandoci sopra, ma durante una visita cardiologica la dottoressa notò che aveva difficoltà ad eseguire un elettrocardiogramma a causa dei tremori che aveva mia madre. Dopo aver richiesto la presenza di mia sorella, ci ha consigliato di fare degli approfondimenti e fu così predisposto il ricovero di mia mamma nel reparto di neurologia”. La neurologa che la stava seguendo, dopo un’indagine familiare, dal cognome ricordò di aver assistito anche il fratello della madre di Evelin, al quale era stata posta la medesima diagnosi, anche se in famiglia nessuno aveva mai parlato della malattia di Huntington. “Dei fratelli di mia madre sapevamo poco perché erano più grandi di lei e non li frequentavamo molto”, spiega Evelin, che ha due sorelle e un fratello: solo lei e la maggiore delle sue sorelle hanno fatto il test presintomatico e, mentre quello della sorella ha dato responso negativo, per Evelin il risultato è stato positivo. “Ho pensato che, per me, conoscere la verità fin da subito fosse la scelta migliore perché avevo bisogno di sapere”, ricorda la ragazza. “Così ho avviato la richiesta e messo in moto il percorso per sottopormi al test. Ho anche sostenuto dei colloqui con lo psicologo ma quando mi hanno comunicato il risultato è stato comunque doloroso”.

Proprio in quel periodo, Evelin ha conosciuto il suo compagno e si è trasferita a vivere da lui. Nel frattempo, però, la situazione a casa dei suoi si faceva sempre più tesa, perché il padre di Evelin non accettava facilmente la malattia della moglie e spesso litigava con lei anche quando era chiaro che i suoi comportamenti erano dovuti alla malattia. Nel giro di poco tempo, dopo una caduta dovuta ai tremori, la donna ebbe bisogno della sedia a rotelle. “Quando la malattia è peggiorata, mia madre ha cominciato a urlare anche nel pieno della notte e abbiamo capito che non saremo riusciti a tenerla a casa”, continua Evelin. “Decidemmo di rivolgerci a delle strutture RSA, per riuscire ad avere una terapia adeguata che rallentasse il decorso della malattia e la portasse a vivere una vita un pochino più normale. Per poterla tenere in RSA e sostenere le spese, oltre ad utilizzare tutta la sua pensione e tutta la parte dell’accompagnamento dovuto alla sua invalidità, abbiamo contribuito noi familiari con i nostri risparmi. Quando mio padre ci ha detto che voleva riportarla a casa, per via delle eccessive spese necessarie a proseguire il ricovero in RSA, con la mia famiglia ci siamo dati da fare e ci siamo organizzati. Per farla svagare nonostante fosse in sedia a rotelle, oltre ad accompagnarla al mare dove c’erano le pedane adatte, facevamo il bagno con lei, la portavamo a fare spese: abbiamo cercato di farle fare una vita il più possibile normale, anche se a volte ci metteva un po’ in imbarazzo perché aveva la tendenza di dire tutto quello che le veniva in mente a voce alta”.

“Tenevamo un quaderno con tutte le terapie che assumeva e ci siamo organizzati per andare agli appuntamenti con i medici”, prosegue Evelin. “Non è stato facile starle accanto e assistere a tutte le visite che faceva, specialmente quelle dallo pneumologo, perché mia madre aveva un deficit respiratorio ed era necessario aspirare il catarro per permetterle di respirare bene. Una volta, prima dell’aspirazione, mi guardò e mi disse che aveva paura. In seguito, anche io ho dovuto sottopormi a dei test e a delle visite e mi è capitato di pensare a lei e a come si dovesse essere sentita in quei momenti”. Evelin e il suo compagno, per più tempo vicini alla madre di lei, hanno sempre collaborato con i medici, aiutando la donna a rimanere ‘sveglia’ e ad essere più attenta e presente durante le giornate passate insieme. Col passare del tempo i momenti di lucidità si sono sempre più ridotti, sino alla morte della madre.

Successivamente, mi sono molto concentrata sul percorso di procreazione assistita per diventare madre”, continua Evelin. “Ho paura di come la malattia si manifesterà in me, ma non voglio rinunciare a questa gioia e oggi, fortunatamente, grazie alla ricerca non sono costretta a farlo. Dopo averne discusso con il mio compagno, abbiamo deciso di informarci sul percorso di procreazione assistita”. La dottoressa aveva spiegato a Evelin che, fino a qualche anno fa, la diagnosi genetica pre-impianto era vietata in Italia e che sarebbe dovuta andare all’estero qualora avesse desiderato perseguire questa strada: purtroppo, i costi erano troppo elevati per le disponibilità economiche della coppia ma, per fortuna, Evelin ha scoperto che al Microcitemico di Cagliari si può intraprendere questo percorso senza spese proibitive per i pazienti e così non ha perso tempo: adesso la sua priorità è questa.

Io credo che sia molto importante parlare della malattia di Huntington e non mi nascondo”, conclude Evelin. “Credo che questa patologia semplicemente faccia parte di me, c’è da quando sono nata e, magari, ha contribuito a darmi il carattere che ho. Quando ho saputo di averla, lì per lì, ho pensato che avrei solo dovuto godermi la vita fino a quando la malattia me lo avrebbe consentito, ma poi la quotidianità prende il sopravvento, quindi ora mi concentro sull’obiettivo di diventare madre e, nel frattempo, spero che si avvicini una terapia in grado di rallentare la patologia”.

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