Grazie a criteri di diagnosi e monitoraggio più accurati e nuove terapie, sempre più pazienti ricevono un trattamento ottimale. Intervista al Prof. Domenico Alvaro, Ordinario di Gastroenterologia, Università Sapienza di Roma, Dir. II Livello UOC Gastroenterologia

“Le cose, negli ultimi 30- 40 anni sono profondamente cambiate. Un tempo, nella maggior parte dei casi vedevamo questi pazienti quando avevano già una malattia in fase di cirrosi o addirittura per le complicanze della cirrosi (ascite, emorragia digestiva ecc.). Oggi, sempre più frequentemente, la diagnosi viene posta in fase precoce, quando la malattia è silente o asintomatica, soprattutto nelle grandi città dove ci sono centri di eccellenza. Quindi, è cambiato anche il modo di approcciarsi al paziente. Se prima la prognosi era del tutto simile a quella della cirrosi epatica oggi, invece, possiamo spiegare al paziente che se svilupperà la malattia sarà tra 10 o 20 anni e che ci sono diverse possibilità di tenerla sotto controllo. Era diventato difficile dare questo messaggio e al tempo stesso chiamarla ‘cirrosi’ perché nel linguaggio comune questa denominazione si associa ad una condizione irreversibile e gravissima. Così la comunità scientifica internazionale, con l’appoggio delle associazioni dei pazienti, ha provveduto a cambiare il nome, da “Cirrosi Biliare Primitiva” all’attuale denominazione di “Colangite Biliare Primitiva. A spiegare così l’importanza del cambio di denominazione di questa malattia è il prof. Domenico Alvaro, Ordinario di Gastroenterologia, Università Sapienza di Roma, Dir. II Livello UOC Gastroenterologia.

“E’ stata una cosa assolutamente positiva - continua il prof. Alvaro - se non fosse che la nostra burocrazia non si è ancora adeguata. Dobbiamo, infatti, spiegare al paziente che il codice d’esenzione 571.6 che gli verrà attribuito riguarda la vecchia, non ancora aggiornata, denominazione di ‘Cirrosi Biliare Primitiva’ e, spiegare i motivi burocratico-amministrativi che fanno ritardare il cambio di denominazione. E’ evidente che senza una giusta informazione, il paziente rimane sconvolto. I pazienti, per effetto dell’inserimento della malattia tra le malattie croniche, hanno l’esenzione dal ticket per gli esami e le visite di controllo ma, sarebbe molto meglio per tutti se venisse riconosciuta anche dal punto di vista burocratico come malattia rara. La comunità scientifica l’ha chiesto più volte in via ufficiale ma non siamo stati ascoltati e la CBP non è stata inserita nemmeno nell’ultima lista di malattia rare che a breve dovrebbe entrare nei nuovi LEA”.

Che cosa cambierebbe con l’inserimento della CBP nella lista delle malattie rare esenti, e quindi con il passaggio da ‘malattia cronica’ a ‘malattia rara’?
La CBP dal punto di vista epidemiologico è a tutti gli effetti una malattia rara, ma come tante altre è rimasta esclusa dal meccanismo della Lista delle Malattie Rare, un meccanismo tutto italiano. Fino a pochi anni fa avevamo poche armi per gestire questa malattia, non avrebbe fatto molta differenza essere o meno nella lista. Oggi invece, per questa malattia siamo sulla strada della “Medicina di Precisione”, potendo attribuire ad un determinato paziente una prognosi precisa e diverse terapie di seconda linea, in caso di non risposta all’acido ursodesossicolico. Abbiamo strumenti precisi per monitorare la progressione di malattia e la comunità scientifica italiana è riconosciuta a livello internazionale per i risultati ottenuti dallo studio di questa malattia. Senza un formale riconoscimento di malattia rara, non possono essere nominati i centri di riferimento – e di conseguenza i pazienti non hanno una indicazione chiara sul dove andare – e, i centri d’eccellenza italiani hanno difficoltà ad entrare nella rete degli European Reference Network (ERN). Questa esclusione dall’elenco delle malattie rare non fa risparmiare il SSN e a perderci sono solo i pazienti.

Torniamo alla malattia, una volta fatta la diagnosi di CBP qual è il primo passo da fare?
La prima cosa necessaria è definire in che stadio di malattia si trova il paziente. La malattia può essere silente, asintomatica, o progredire in diversi stadi di fibrosi fino allo stadio di cirrosi. Quando andiamo a definire lo stadio dobbiamo partire con l’escludere quello più grave, il cirrotico, e da lì andare a ritroso.  
La forma silente di CBP, definita dalla positività degli anticorpi antimitocondrio ma con esami ematici del fegato nella norma, la scopriamo in genere nei familiari, ai quali spesso si fanno degli esami per l’anticorpo antimitocondrio una volta che è stata fatta una diagnosi in famiglia, o perché un altro specialista ha richiesto il test. Queste persone, nel 70-80% dei casi svilupperanno la malattia nell’arco di 20-30 anni. In questo stadio basta fare gli esami di controllo ogni 1 – 2 anni per monitorare l’andamento della patologia.
La malattia asintomatica in genere viene diagnosticata quando dalle analisi del sangue, fatte per altri motivi, il paziente presenta valori alterati di fosfatasi alcalina ed è poi positivo al test dell’anticorpo antimitocondrio ma, oltre a questo, non presenta sintomi.  
Da qui in poi passiamo agli stadi più gravi, con fibrosi avanzata, o allo stadio di cirrosi. Chi arriva alla diagnosi in questi stadi ha già dei sintomi che sono essenzialmente il prurito e la stanchezza. Chi sviluppa il prurito come primo sintomo in genere gira tra vari specialisti perché le cause possono essere tante, allergie, cause dermatologiche, malattie ematologiche, renali, o parassitarie. Prendono magari antistaminici, che alla lunga non fanno bene al fegato, e solo quando il prurito non passa magari arrivano dall’epatologo. 
Per definire in quale stadio si trova il paziente usiamo le analisi di laboratorio generali dove alcuni segni, come l’abbassamento delle piastrine, la compromissione della coagulazione, le gammaglobuline alte, indicano una malattia molto avanzata. Se le analisi dicono questo siamo allo stadio di cirrosi e, dunque alla malattia conclamata. Poi possiamo fare l’elastografia epatica, quello che comunemente viene chiamato ‘fibroscan’ che, grazie alla velocità di propagazione di un’onda vibratoria, ci permette di capire quanto è duro il fegato (“stiffness” epatica). E’ un esame non invasivo che somiglia ad una ecografia. Più il fegato è duro, e quindi fibrotico, più grave è la situazione. Questo esame ci consente di dividere i pazienti in due categorie: quelli che hanno una “stiffness” epatica minore di 9,6 chilopascal (kPa) che praticamente si comportano come la popolazione sana e rimangono stabili, e quelli che hanno una “stiffness” epatica superiore a 9,6 kPa che, invece, nel 30% dei casi svilupperanno in 7 anni gravi eventi legati alla patologia. E’ una metodica che si sta dimostrando accurata anche nella PBC.

Dal punto di vista terapeutico in che modo oggi si può affrontare questa malattia?
Ad oggi la terapia di prima linea è rappresentata dall’acido ursodessicolico. Si comincia questa terapia e, dopo un anno, si fa un controllo per vedere se i valori della fosfatasi alcalina si sono ridotti al di sotto di 1.67 volte il valore normale: se così è, possiamo dire che il paziente sta rispondendo alla terapia e la malattia ha una scarsissima possibilità di progredire. Questo però non accade sempre e se il valore rimane al di sopra di 1,67 volte i valori normali, vuol dire che la malattia sta progredendo e allora dobbiamo aggiungere all’acido ursodesossicolico altri farmaci. Fino a pochi anni fa non avrei saputo che farmaci aggiungere, oggi la situazione è cambiata. Già oggi nei pazienti che non rispondono vengono usati, off label, la budesonide, che funziona soprattutto nei pazienti che hanno anche il danno degli epatociti (epatite d’interfaccia), o i fibrati e in particolare il bezafibrato, che viene usato comunemente nei pazienti con dislipidemie. In una buona percentuale di pazienti riusciamo a normalizzare la fosfatasi alcalina aggiungendo questi farmaci, che però sono off label, cioè sono approvati per l’uso in patologie diverse dalla CBP. A breve, per i pazienti che non rispondono, arriverà un altro farmaco specifico, l’acido obeticolico che si è dimostrato in grado di indurre normalizzazione della fosfatasi alcalina in un’elevatissima percentuale di pazienti. Se non riusciamo a normalizzare la fosfatasi alcalina neanche con queste terapie, la malattia progredisce verso la cirrosi scompensata. In questi casi e, nei pazienti affetti da prurito intrattabile, non abbiamo altra possibilità che attendere il momento opportuno per inserire i pazienti in lista di trapianto.  
Ci sono vari studi che dimostrano come la risposta della fosfatasi alcalina all’acido ursodesossicolico è un indice prognostico accurato per distinguere i pazienti a scarsa o rapida progressione di malattia. Questo ci consente di dividere i pazienti in ‘bianco e nero’, quello che progredisce e quello che non progredisce, ma la scienza medica sta andando avanti per poter dare una prognosi sempre più precisa, valutando anche le situazioni intermedie e soprattutto fornendo informazioni sul rapporto prognosi/tempo. Per soddisfare queste necessità, ci sono due importanti studi internazionali, a cui hanno partecipato anche gruppi italiani, che stanno mettendo a punto due indici, UK Score e Globe Score, attualmente in corso di validazione. Questi ‘scores’ prendono in esame parametri semplici che si ottengono dagli esami del sangue di routine (bilirubina, piastrine, fosfatasi alcalina, transaminasi). In base al punteggio ottenuto, si potrebbe predire il rapporto prognosi/tempo, cioè dire se questo paziente verosimilmente andrà incontro al trapianto in 2, 5 o 10 anni. Queste scale potrebbero trovare applicazione clinica nel prossimo futuro.

Per chi ha una progressione di malattia grave o un prurito intrattabile si apre la strada del trapianto di fegato, giusto?
Si. Per fortuna, nel trapianto di fegato oggi sono stati raggiunti degli outcomes davvero buoni, i limiti sono sempre l’età del paziente, la disponibilità degli organi ed il tempo di attesa in lista per trovare un donatore compatibile.

Per ulteriori informazioni sulla CBP, leggi qui la nostra intervista alla prof.ssa Annarosa Floreani.

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