Studio italiano propone un innovativo modello di classificazione dei pazienti per fornire loro una presa in carico mirata
Negli ultimi anni, la storia dell’atrofia muscolare spinale (SMA) ha vissuto una rivoluzione silenziosa ma profonda. Grazie all’introduzione dello screening neonatale e alla disponibilità di terapie innovative, oggi è possibile intercettare la malattia prima che si manifesti e intervenire tempestivamente, modificandone radicalmente il decorso. Ma cosa comporta davvero questa svolta? Come cambia la classificazione della SMA e quali sono le implicazioni per la presa in carico clinica?
Ne abbiamo parlato con il dr. Antonio Varone, neurologo pediatrico presso l’Ospedale Santobono di Napoli e primo autore dello studio pubblicato su Frontiers in Neurology, che propone una nuova classificazione della SMA nell’era dello screening neonatale. Un’intervista per capire, con parole semplici, come la genetica, la diagnosi precoce e le terapie disponibili stanno riscrivendo il futuro di tanti bambini.
Dott. Varone, quali sono i principali limiti delle attuali classificazioni della SMA nell’era dello screening neonatale, e in che modo il vostro studio propone di superarli?
I limiti delle classificazioni tradizionali sono legati al fatto che si basavano essenzialmente sull’età di insorgenza dei sintomi. Con lo screening neonatale, la situazione è completamente cambiata: oggi identifichiamo i bambini affetti da SMA alla nascita attraverso la diagnosi genetica, e iniziamo subito il trattamento. Questo significa che la storia clinica può essere completamente modificata dall’intervento precoce. Il problema è che, trattando precocemente, non possiamo sapere che tipo di SMA il bambino avrebbe sviluppato. Prima parlavamo di SMA1 se i sintomi comparivano entro i 6 mesi, di SMA2 tra i 6 e i 18 mesi, di SMA3 tra i 18 mesi e i 18 anni, e di SMA4 dopo. Ora, invece, abbiamo bambini con conferma genetica della malattia, ma senza alcun sintomo clinico. Questi bambini potrebbero restare asintomatici per sempre, grazie alle terapie. Quindi, invece di “presintomatici”, oggi sarebbe più corretto dire “asintomatici”, perché non sappiamo se e quando la malattia si manifesterà. In questo contesto, le vecchie classificazioni non bastano più: serve un nuovo modo per categorizzare i pazienti.
Che tipo di pazienti stanno emergendo oggi grazie allo screening neonatale, e cosa ci raccontano le evidenze raccolte su oltre 140 bambini trattati precocemente in Italia?
Dallo screening emergono tre tipologie principali di pazienti. La prima è quella dei bambini che appaiono clinicamente sani, ma che hanno una diagnosi genetica confermata di SMA. In questi casi, siamo certi che il bambino è affetto, ma non abbiamo nessun segno clinico che ci dica quale tipo di SMA si sarebbe manifestata. Questo è un dato completamente nuovo e impensabile prima dell’era dello screening. La seconda tipologia riguarda i bambini che, oltre ad avere una diagnosi genetica confermata, presentano alla nascita dei segni clinici, anche lievi: sono i cosiddetti “paucisintomatici”. In alcuni casi, invece, la sintomatologia è già evidente: si parla di bambini con un quadro conclamato di ipotonia, che fanno pensare a una SMA1 classica. Infine, esiste una terza situazione, forse la più complessa: abbiamo incontrato bambini con una sintomatologia clinica tipica di un bambino affetto da atrofia muscolare spinale, confermata da indagini strumentali (EMG) e dalla biopsia muscolare, ma senza una mutazione genetica identificata. In uno dei nostri casi, la conferma genetica è arrivata solo dopo mesi, perché si trattava di una mutazione puntiforme non rilevabile con i test di primo livello. Durante l’attesa, vista la progressione della malattia, abbiamo deciso comunque di iniziare la terapia, con risultati clinici molto positivi.
Come è stata costruita la nuova classificazione a tre gruppi, e quali criteri genetici e funzionali la rendono uno strumento utile per guidare la presa in carico e il monitoraggio?
Abbiamo strutturato la classificazione in tre classi, ognuna con implicazioni cliniche, genetiche e terapeutiche. La Classe 1 comprende i bambini che risultano geneticamente affetti da SMA ma che sono clinicamente asintomatici alla nascita, che non è detto che svilupperanno mai la malattia. La diagnosi genetica permette di intervenire subito, e in base al numero di copie del gene SMN2 possiamo scegliere il trattamento più adeguato, sulla base delle indicazioni previste. La Classe 2: include i bambini che presentano già sintomi alla nascita e che hanno una conferma genetica. Sono assimilabili alla SMA1, e anche per loro il numero di copie di SMN2 è fondamentale per guidare la scelta terapeutica. La Classe 3: comprende quei bambini che mostrano un quadro clinico e strumentale compatibile con SMA, ma che non hanno ancora una conferma genetica. In questi casi, laddove la clinica è fortemente suggestiva e avvalorata dalle indagini elettroneurofisiologiche e dal reperto della biopsia muscolare, consigliamo comunque di iniziare la terapia – previo passaggio attraverso comitato etico, amministrazione ospedaliera e AIFA – anche se si tratta di uso off-label. Se in seguito si identifica la mutazione genetica, questi pazienti migrano nella classe 2.
In che modo questo approccio può migliorare il percorso terapeutico e il follow-up, anche rispetto alla scelta dei trattamenti e alla definizione degli obiettivi clinici?
La classificazione ci consente di costruire percorsi personalizzati per ciascun gruppo. Per la classe 1, i controlli nel primo anno sono ogni 2-3 mesi, per monitorare l’eventuale comparsa di segni clinici e verificare l’efficacia della terapia. Dopo il primo anno, i follow-up si diradano: ogni 3-6 mesi fino ai due anni, poi ogni 6-12 mesi. I bambini di questa classe, nella maggior parte dei casi, crescono normalmente, con uno sviluppo motorio sovrapponibile ai coetanei sani. Il contatto con le famiglie è continuo, anche tramite linee dirette con l’équipe e l’accesso al pronto soccorso pediatrico in caso di urgenze. Per la classe 2, cioè i bambini sintomatici alla nascita, il follow-up resta più ravvicinato anche oltre il primo anno. I controlli sono ogni 2-3 mesi, e valutiamo i progressi tramite scale standardizzate. In base alla risposta clinica, decidiamo se mantenere o modificare il ritmo dei controlli. La classe 3 segue inizialmente lo stesso protocollo della classe 2, con una frequenza anche maggiore. In caso di successiva identificazione della mutazione genetica, il paziente viene riclassificato come classe 2. Anche qui, la decisione di iniziare la terapia richiede l’autorizzazione di comitato etico, AIFA e direzione aziendale, ma abbiamo già casi in cui questo approccio ha portato a miglioramenti clinici importanti.
Quali sono, secondo lei, le prospettive per l’applicazione di questa nuova classificazione nella pratica clinica italiana, e quali cambiamenti sarebbero auspicabili per renderla operativa su tutto il territorio?
La nostra classificazione ha il merito di mettere insieme tre livelli: clinico, genetico e terapeutico. Non sono concetti nuovi presi singolarmente, ma inserirli in un’unica cornice aiuta a costruire percorsi chiari, replicabili e adattabili nel tempo. Ci permette di seguire meglio l’efficacia delle terapie sul lungo periodo e, se necessario, di riconsiderare i trattamenti. Ad esempio, se un bambino trattato con terapia genica mostra un peggioramento alle scale di valutazione, possiamo valutare il passaggio a un’altra terapia. Questo vale anche per gli altri farmaci, con la consapevolezza, però, che in Italia la terapia genica è rimborsabile nei pazienti con intervallo di peso tra i 2,6 e i 13,5 kg. Ad oggi, il nostro studio ha ricevuto grande attenzione internazionale. La percentuale di lettura dell’articolo sulla piattaforma della rivista Frontiers in Neurology è del 34% rispetto a tutti gli articoli pubblicati, un dato molto positivo. In Italia, invece, non ci sono ancora riscontri ufficiali, ma confidiamo che la proposta venga adottata e condivisa nella pratica clinica.
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