L’ipotesi è in via di studio ma una nuova indagine sembra rivelare che questi farmaci siano di aiuto per i pazienti con COVID-19
Al 2 aprile, risultavano essere oltre 115mila i positivi al virus SARS-CoV-2 in Italia. Un numero elevatissimo, e se ci si sofferma a riflettere sulla stima di 15 milioni di italiani affetti da ipertensione arteriosa (metà dei quali probabilmente neppure sanno di soffrire di questa condizione cronica) diramata dal Ministero della Salute, non è difficile immaginare quanti siano i pazienti ipertesi contagiati dal virus. Magari si tratta di un vicino di casa o di un amico che da anni sappiamo assumere farmaci anti-ipertensivi e a cui pensiamo leggendo uno degli articoli che da giorni circolano nel web, e che affermano come, negli individui ipertesi che fanno uso di farmaci ACE-inibitori e sartani, il SARS-Cov-2 susciti una forma di infezione talmente aggressiva da richiedere, in certi casi, il ricovero in terapia intensiva.
A rendere questa correlazione più tragicamente preoccupante sono i dati raccolti sui pazienti deceduti positivi a COVID-19, dai quali si osserva come l’ipertensione arteriosa sia presente in oltre il 70% delle vittime. Lo stesso bollettino aggiunge che prima del ricovero in ospedale, il 30% dei pazienti deceduti positivi a COVID-19 seguiva una terapia con ACE-inibitori, mentre il 17% seguiva una terapia con sartani (bloccanti del recettore per l’angiotensina). A un primo sguardo, ciò sembrerebbe avvallare la teoria poc’anzi esposta ma la SIIA (Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa) ha subito invitato i pazienti a non modificare il loro piano terapeutico, specialmente senza il consulto di un medico. Un messaggio ripreso anche dalla SIMG (Società Italiana di Medicina Generale) e che ora si spiega in un articolo pubblicato sulla rivista The New England Journal of Medicine, una delle testate più autorevoli e affidabili in campo medico e scientifico. Per comprendere meglio questa posizione occorre però fare un passo indietro e avere chiari un paio di concetti sulla pressione arteriosa.
IPERTENSIONE ARTERIOSA E SISTEMA RENINA-ANGIOTENSINA
L’ipertensione arteriosa è una patologia cronica frequentemente associata a una superiore incidenza di malattia cardiovascolare e renale e, tra i vari meccanismi che ne sono alla base, c’è il sistema renina-angiotensina. La renina è un enzima che concorre a regolare la pressione sanguigna e favorisce il distacco dell’angiotensina I dall’angiotensinogeno; a sua volta, l’angiotensina I viene convertita dall’enzima ACE in angiotensina II. Quest’ultima, agendo sul muscolo vascolare liscio, determina un aumento della pressione sanguigna.
COVID-19: L’IPOTESI DEL RUOLO DANNOSO DEGLI ACE-INIBITORI
Nell’ambito del complesso sistema renina-angiotensina, si è visto che l’enzima ACE2, che degrada l’angiotensina II in angiotensina-(1-7), rappresenta una porta d’ingresso per i virus della famiglia Coronavirus, quali il SARS-CoV-2, e poiché tale degradazione avviene in maniera particolare quando il sangue passa nei polmoni, si è ipotizzato che una maggior espressione di ACE2 determini un inasprimento dei sintomi respiratori dell’infezione da SARS-CoV-2. In particolare, i farmaci ACE-inibitori, come ad esempio il captopril e l’enalapril, usati per il trattamento dell’ipertensione e dello scompenso cardiaco, interferiscono con il sistema renina-angiotensina, e l’ipotesi avanzata è che potrebbero causare una maggior espressione di ACE2. Da una parte, quindi, questi farmaci abbassano la pressione arteriosa, ma dall’altra potrebbero aprire più porte al virus.
COVID-19: GLI ACE-INIBITORI HANNO UN RUOLO PROTETTIVO?
Gli autori del nuovo articolo pubblicato sul The New England Journal of Medicine, tuttavia, hanno proposto un punto di vista differente e, per certi versi, meno semplicistico. Gli studiosi, innanzitutto, hanno valutato la cosa da un punto di vista epidemiologico, constatando che, in Cina, solo una percentuale oscillante tra il 30 e il 40% dei pazienti ipertesi segue un trattamento con farmaci anti-ipertensivi; successivamente, hanno osservato che, per quanto simili, ACE e ACE2 presentano delle rilevanti differenze, per le quali i farmaci ACE-inibitori non sembrano davvero interferire con ACE2. Gli autori dell’articolo affermano che in più studi condotti su pazienti affetti da infarto, fibrillazione atriale, stenosi aortica e coronaropatie, in coloro che assumevano ACE-inibitori la concentrazione di ACE2 non sembra essere superiore a quella di chi non li assumeva. La questione sembra dunque molto più complessa di come è stata presentata, e la confusione si fa maggiore se si considera che in modelli in vitro si è visto che, dopo l’infezione iniziale da SARS-CoV-2, la concentrazione di ACE2 sembra addirittura diminuire. Ciò potrebbe tradursi in un accumulo di angiotensina II, che agisce su un suo recettore (AT1) aumentando la permeabilità vascolare e riducendo i danni al comparto polmonare. Inoltre, da studi eseguiti sui topi, si è visto che l’iniezione di proteina ACE2 ricombinante riesce a proteggere i topi dal grave danno polmonare acuto.
DUE IPOTESI AL VAGLIO
Va precisato che, in entrambi i casi descritti, si tratta ancora di pure ipotesi in via di studio e che, pertanto, non è assolutamente opportuno che pazienti affetti da svariate problematiche cardiovascolari o da ipertensione arteriosa sospendano, o peggio ancora interrompano, il trattamento. Attualmente, è stato approvato uno studio clinico nel quale sarà valutata la possibilità che la somministrazione di proteina ACE2 ricombinante eserciti un ruolo nel ripristinare l’asse renina-angiotensina-aldosterone, contribuendo perciò al contenimento del danno polmonare nei pazienti con COVID-19. Nel frattempo, però, una soppressione della terapia per l’ipertensione, per motivi non fondati, potrebbe tradursi in un danno che deve essere assolutamente evitato.
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