Lucia Marotta, Presidente di ANIMaSS ODV: “Inserire la patologia come malattia rara nei LEA è un atto dovuto, di giustizia, di equità e di civiltà”
La sindrome di Sjögren primaria è una malattia autoimmune cronica e anche sistemica, il cui meccanismo preciso non è ancora del tutto chiarito. In pratica, il sistema immunitario attacca erroneamente le ghiandole esocrine (in particolare ghiandole salivari e lacrimali), provocando una riduzione della loro funzionalità. È una malattia sistemica poiché può interessare diversi organi o apparati. Si può presentare in forma primaria o secondaria e associarsi ad altre malattie come artrite reumatoide, lupus eritematoso sistemico, miopatie infiammatorie croniche e sclerodermia, sarcoidosi, cancro.
Può causare un danno permanente della vista o aumentare il rischio di sviluppare un linfoma non-Hodgkin, tumore delle ghiandole linfatiche. Riguarda le donne con una frequenza circa 10 volte maggiore rispetto agli uomini e le fasce di età più coinvolte all’esordio sono 20-30 anni e 40- 50. Spesso rimane a lungo non diagnosticata, poiché il suo esordio è subdolo e i sintomi più comuni (secchezza oculare e orale) tendono a essere sottovalutati.
Secondo i dati dell’Associazione Nazionale Italiana Malati Sindrome di Sjögren (ANIMaSS ODV) riportati nel report epidemiologico del 2022, la prevalenza della malattia rientra nei criteri per essere considerata una patologia rara, precisamente 3,8 ogni 10.000 abitanti, ma in Italia non è stata ancora inserita nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) come tale, con importanti conseguenze negative in termini di accesso alle cure, presa in carico e ricerca.
La diagnosi arriva il più delle volte dopo anni di incertezze e consulti e le terapie attualmente disponibili sono sintomatiche, non risolutive. Per le persone con sindrome di Sjögren primaria sistemica poi non esiste un PDTA (Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale), alla base della presa in carico.
Rendere visibile questa malattia invisibile è la priorità per Lucia Marotta, Presidente dell’associazione ANIMaSS, che ci racconta la sua battaglia sia come persona malata, che come attivista.
Quanto è conosciuta la sindrome di Sjögren primaria sistemica?
“Molto poco. L’Associazione, in questi vent’anni, ha fatto davvero tanto, abbiamo lavorato non solo sull’informazione e sulla sensibilizzazione nelle scuole ma abbiamo puntato molto anche sulla formazione di medici, specialisti e operatori sanitari. Quello che però manca è la ricerca. Non esiste una ricerca in ambito genetico, non ci sono investimenti. Ad esempio, recentemente ho saputo che l’AIFA ha stanziato fondi per una ricerca indipendente sulle malattie rare, ma noi siamo stati esclusi. Perché, pur essendo rara nei numeri, la sindrome di Sjögren primaria sistemica non è ancora ufficialmente inserita nei LEA come malattia rara”.
Perché no?
“Già nel 2008 avevamo realizzato un primo report epidemiologico, raccogliendo dati regionali tramite gli assessorati alla sanità e i pochi centri epidemiologici esistenti. I dati disponibili sono solo sulla forma primaria, la più leggera: circa 3,8 casi ogni 10.000 abitanti. La soglia per essere considerata rara è 5 su 10.000, quindi ci rientriamo. Quando andai al Ministero della Salute nel 2009, all’epoca c’era il Ministro Fazio, accettò i dati da noi raccolti, che erano ancora più bassi (2,48 su 10.000 abitanti) ed erano gli unici disponibili in Italia per riconoscere la sindrome come malattia rara. L’Istituto Superiore di Sanità però si oppose. Il Ministro chiese allora all’Istituto di smentire i nostri dati ma ciò non accadde e la verifica non fu mai fatta. Il Ministro, pur essendo un medico e quindi consapevole della gravità della malattia, alla fine mi scrisse che la sindrome di Sjögren, né in Italia né all’estero, era considerata rara. Citò i dati del Giappone, 200 casi su 100.000 abitanti, e quelli della Grecia. Non sono dati italiani, quindi non ho mai capito il senso di portarmi come esempio i dati delle altre nazioni. Intanto si aggiornano i LEA nel 2017 e si inseriscono malattie rare come la sclerodermia, che è molto simile alla nostra ma non ha lo stesso rischio oncologico”.
Non ci sono quindi terapie nuove per la sindrome di Sjögren?
“La sindrome non è davvero curata, sono disponibili solo farmaci palliativi come cortisone, immunosoppressori, antimalarici. Nei casi oncologici, invece, si seguono le linee comuni, ma manca totalmente una ricerca specifica. Adesso pare si stia testando un farmaco biologico, ma tutto avviene in modo non ufficiale. Nessuno sa nulla. Però mi chiedo, come si può creare un farmaco biologico se non si conosce davvero la malattia? Il trattamento standard è quello dell’artrite reumatoide. Nessuna terapia specifica, nessuna ricerca, nessun farmaco. Le case farmaceutiche dovrebbero investire, ma finché la sindrome di Sjögren primaria sistemica non sarà inserita nei LEA come rara non ci sarà alcun incentivo fiscale, quindi non si muoverà nulla. Avevamo anche cercato di ottenere un ambulatorio multidisciplinare, fondamentale per una presa in carico completa, progetto che però è rimasto sulla carta. L’Associazione è l’unico punto di riferimento in Italia per chi ha questa malattia, ma molte persone, dopo l’iscrizione, si sentono sconfortate, perché non vedono nessun progresso, nessuna tutela”.
Vi occupate anche di formazione medica?
“Sì. Abbiamo realizzato una FAD (Formazione a Distanza) cui hanno partecipato quasi 10.000 professionisti in due anni. È stata interrotta per problemi tra i provider, ma l’adesione era altissima. Abbiamo organizzato convegni FAD ed ECM, corsi per infermieri e medici di base. C’è interesse da parte dei clinici, ma manca ancora la spinta per andare oltre. Portiamo avanti diverse iniziative per sensibilizzare le persone su questa malattia. Ad esempio, ho lanciato un progetto simbolico ma potente, la “panchina azzurra”. È partita da Noto, in Sicilia, e a oggi abbiamo inaugurato 34 panchine azzurre in tutta Italia. In ogni evento coinvolgiamo scuole, autorità, cittadinanza. La partecipazione c’è.
Qual è l’impatto della malattia sulla vita?
“La forma sistemica è altamente invalidante e degenerativa. Colpisce occhi e bocca, due organi fondamentali, ma anche stomaco, fegato, intestino, pancreas, cuore. Nel 70% dei casi coinvolge l’apparato osteoarticolare, limitando la mobilità. Può interessare anche i polmoni, provocare crisi respiratorie e spesso sfocia in patologie oncologiche. Il coinvolgimento del sistema nervoso centrale e periferico la rende simile, per certi aspetti, alla sclerosi multipla. È la malattia autoimmune con il più alto rischio di linfoproliferazioni, quindi tumori alla tiroide, al seno o all’utero. Io stessa ho avuto un carcinoma sul braccio sinistro. L’aspetto oncologico è spesso ignorato, ma continuo a parlarne, a evidenziarlo in ogni occasione.
Servirebbe una presa in carico globale.
“Esatto. Sarebbe importante non solo per le persone malate, ma anche per monitorare l’evoluzione della malattia, prevenire le complicanze e intervenire prima che degeneri. Invece, non succede. Ogni specialista lavora per conto suo. Manca un centro di riferimento, un team multidisciplinare. In alcune zone sono riuscita a creare delle piccole reti grazie ai rapporti costruiti durante i Convegni, ma è troppo poco. Servono ambulatori regionali, strutture dedicate. Anche i dirigenti delle aziende sanitarie non possono continuare a ignorare tutto questo. Io vivo a Verona e già nel 2015 ci era stato garantito, attraverso un protocollo, che sarebbe nato un ambulatorio dedicato a questa Sindrome. Era stato anche individuato il medico che avrebbe dovuto dirigerlo, ma quell’ambulatorio non è mai partito. Non c’è stata la volontà, né da parte di chi avrebbe dovuto guidarlo, né da parte di chi era stato coinvolto. Nove anni dopo, nel 2024, in occasione del 19° anniversario dell’Associazione, ci siamo ritrovati all’Università di Verona con alcuni specialisti per riprovarci. Era una promessa verbale, ma finora non si è mosso niente. Gli immunologi, che sarebbero i più qualificati per gestire un ambulatorio dedicato, preferiscono occuparsi d’altro. In realtà ognuno coltiva il proprio orticello, la propria specialità medica, ma la Sjögren è una malattia complessa, richiederebbe un approccio integrato. E intanto le persone malate si disperano. Chi è più grave, alla fine, riesce a ottenere l’invalidità, ma la qualità della vita resta molto scadente. Non voglio fare la guerra a nessuno perché, quando si sta male, si sta male. A breve avrò un incontro al Ministero della Salute e sarò molto chiara: nei LEA entrano le malattie che si vuole far entrare, come la fibromialgia, che è stimata in circa 3 milioni di persone, più del diabete. E mi dicono che stanno proponendo di inserire anche l’obesità, probabilmente per giustificare la somministrazione di un farmaco costoso pensato per il diabete e oggi usato anche per perdere peso. Tutto questo per dire che molte scelte sembrano rispondere agli interessi delle case farmaceutiche. Se esistesse un farmaco per lo Sjögren, credo che la malattia diventerebbe rara da un giorno all’altro. Come dice una nostra associata, con cinismo, ma anche lucidità ‘se si ammalasse la persona giusta, o anche solo un suo parente, tutto cambierebbe’”.
In quanto tempo si arriva oggi a una diagnosi di Sindrome di Sjögren?
“Rispetto al passato ci sono stati miglioramenti. Quando è nata l’Associazione, si arrivava alla diagnosi anche dopo 10 anni. Io stessa ho avuto la diagnosi dopo 5 anni, era il 1999. Oggi, generalmente, chi si rivolge a noi arriva alla diagnosi dopo due anni. È un bel passo avanti, ma resta il problema, dopo la diagnosi, della presa in carico, che eviterebbe molte degenerazioni. Servirebbero delle linee guida, ma nessuno le vuole redigere, nessuno vuole esporsi. Eppure, sarebbero fondamentali, ad esempio, sulla riabilitazione. Le persone malate non possono prendere cortisonici a vita, il rischio di osteoporosi, anche in età giovanile, è concreto. Un ciclo di riabilitazione l’anno non basta. Servirebbe una riabilitazione continua, motoria, respiratoria, ginecologica. Molte di noi hanno anche incontinenza urinaria e fecale. Senza linee guida, purtroppo non c’è sostegno a chi soffre, è tutto sulle sue spalle. È inaccettabile, con i reparti ospedalieri sovraccarichi, liste d’attesa infinite, farmaci o rimedi contro il dolore che da un giorno all’altro non passano più e per averli si attraversa un’odissea.
Il 23 luglio sarà la Giornata Mondiale dedicata alla malattia, che programmi avete?
“Di solito proponiamo un evento formativo ECM che affronta i vari aspetti della patologia, quello oculistico, odontoiatrico, ginecologico, dermatologico, gastroenterico, ecc., perché la Sjögren impatta anche sulla sfera sessuale e relazionale, oltre che sulla procreazione. Coinvolgiamo fisioterapisti, infermieri e tutti gli operatori sanitari. Porteremo anche il tema della rarità al centro del dibattito. Sto cercando di coinvolgere anche la dott.ssa Maria Rosa Campitiello, che incontrerò il 24 giugno a Roma. È capo dipartimento della prevenzione e della ricerca e spero davvero che non si limiti ad ascoltare, ma che agisca. Inserire la sindrome di Sjögren primaria sistemica come malattia rara nei LEA è un atto dovuto, di giustizia, di equità e di civiltà”.
Organizzerete anche attività per i pazienti?
“Sì, ci sarà anche una parte più artistica. Con la collaborazione del Liceo Artistico di Salerno ho realizzato un libro a fumetti, un video animato tratto da quel libro e anche un video-backstage di un progetto artistico con pittura, fotografia, scultura, che racconta la malattia attraverso l’arte. Proietteremo anche il cortometraggio “L’amante Sjögren”, arrivato finalista a Rai Cinema e vincitore al Festival Artelesia di Benevento (SA) che parla della difficoltà di comunicare una malattia rara. Perché questo è un problema all’interno delle famiglie e nella società. È una patologia complessa e grave ma invisibile, perché colpisce gli organi interni. Esternamente si può anche apparire sani e ciò genera incomprensione e solitudine. La sindrome colpisce soprattutto le donne, ma anche circa 300 bambini e adolescenti in Italia. La prevalenza è altissima, si parla di 9, 10, anche 12 donne per ogni uomo. È una malattia di genere, su cui bisognerebbe investire a 360 gradi. L’Associazione è al fianco delle persone malate, le accoglie, le sostiene, le rappresenta. Avere una comunità unita, numerosa, significa avere più forza per far sentire la propria voce, per chiedere ascolto, per spingere la ricerca a non voltarsi dall’altra parte”.
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