“Attenzione a non prendere il sole nei mesi con la R”, dicevano i nostri vecchi, ricordando come l’esposizione ai raggi solari nelle stagioni di mezzo e in inverno potesse rivelarsi “traditrice” per la salute. Oggi anche la scienza conferma come sia importante proteggersi dal sole anche nella stagione fredda: chi va in montagna o sceglie le vacanze ai tropici deve dunque fare attenzione, per evitare le “overdose” di raggi ultravioletti. Neve, ghiacciai e, in minor misura, l’acqua del mare riflettono la luce solare aumentando la quantità di raggi UV che colpiscono la pelle. Inoltre il sole non è “uguale” in tutte le parti del mondo: ai tropici anche chi ha la carnagione scura necessita di un fattore di protezione molto alto. Bisogna inoltre considerare in quale area geografica ci si sta esponendo, in che periodo dell’anno e a quale altitudine per preservare la pelle dal pericolo di sviluppo del melanoma, il tumore più grave della cute.

A ricordarlo sono gli esperti presenti a Milano il 20 novembre, in occasione della presentazione delle evidenze di un nuovo farmaco "intelligente”, dabrafenib, disponibile in Italia per il trattamento del melanoma non resecabile chirurgicamente o in metastasi. Dabrafenib, sviluppato dalla ricerca GSK, è un inibitore del gene BRAF, che codifica per una proteina
mutata in un’elevata percentuale di pazienti con tumore. E’ proprio per questa alterazione genetica che le cellule tumorali si replicano più velocemente e
soprattutto perdono il meccanismo dell’apoptosi, ovvero la morte cellulare programmata. Dabrafenib si lega alla proteina BRAF mutata inibendo l’esito della mutazione BRAF V600 che si osserva in circa il 50 per cento per cento dei casi di melanoma.

“Per noi clinici si tratta di un’opportunità terapeutica importante nella lotta ad una forma tumorale che, negli ultimi anni, ha visto sviluppare trattamenti che hanno modificato l’aspettativa di vita dei pazienti con melanoma avanzato – spiega Paola Queirolo, oncologa presso l’IRCCS San Martino – Istituto Nazionale per la ricerca sul cancro di Genova e presidente IMI (Intergruppo Melanoma Italiano). Con dabrafenib possiamo parlare di terapia personalizzata e offrire una cura ai pazienti che presentano la mutazione BRAF V600. Ovviamente la prevenzione e la diagnosi precoce del melanoma rimangono presidi fondamentali nella lotta a questo tumore, che appare in continua crescita anche nel nostro Paese”.

Il messaggio, soprattutto per questo tipo di tumore, è molto chiaro. “Giocare d’anticipo attraverso un’adeguata protezione nei confronti delle radiazioni solari, che deve iniziare già da bambini, visto che le scottature in tenera età sono uno dei principali fattori di rischio per l’insorgenza del tumore – prosegue
Queirolo - è la prima norma di prevenzione. Altrettanto importante è eseguire regolarmente i controlli dei nei dal dermatologo, specie se questi presentano “cambiamenti” nella forma, nelle dimensioni e nel colore. Il trattamento precoce del melanoma consente di eliminare la lesione, ma quando questa si fa più profonda la disseminazione delle cellule neoplastiche è però molto rapida”.

“E’ in questi pazienti che può avere significato l’impiego di dabrafenib, perchè ci consente di essere ancora più “mirati” nella scelta del trattamento: oggi sappiamo che ci possiamo aspettare risultati simili nel tempo e sicuramente non inferiori a quelli dell’immunoterapia, che permette di mantenere in vita il 20 per cento dei malati in fase avanzata a dieci anni dalla diagnosi – puntualizza Paolo Ascierto, oncologo presso l’IRCCS Fondazione Pascale - Istituto Nazionale Tumori di Napoli. Già oggi gli studi clinici testimoniano dell’efficacia e del buon profilo di sicurezza di dabrafenib, che risulta efficace nei pazienti con mutazione BRAF V600: il monitoraggio dei malati inseriti negli studi clinici oggi disponibili dimostra che una significativa percentuale di pazienti (31 per cento) mantiene sotto controllo la malattia anche dopo 3 anni di trattamento. Il che significa che sicuramente esistono tipologie di malati che rispondono particolarmente bene al farmaco: in futuro, questi dati potrebbero confermare la possibilità di portare al controllo per tempi prolungati di un tumore che fino a qualche anno fa era quasi del tutto intrattabile in caso di metastasi. Già ora abbiamo indicazioni in questo senso: lo studio BREAK-2 ha mostrato che il 28% dei pazienti con mutazione BRAF V600E erano vivi dopo 2 anni e mezzo.  Il 9 per cento sempre nel Break-2 e il 10 per cento di quanti hanno ricevuto il farmaco nel Break-3 continuano a seguire la terapia senza progressione della malattia”.

Individuare il paziente giusto, quindi, è fondamentale per ipotizzare anche i  risultati del trattamento. Ed è anche per questo che GSK sta sviluppando una serie di progetti che consentano davvero al malato di essere “protagonista” della terapia, senza subirla. “In questo ambito - fa sapere Giuseppe Recchia,
direttore medico e scientifico di GSK Italia – GlaxoSmithKline ha da anni un’importante collaborazione proprio con l’IMI. Con la società scientifica stiamo per esempio conducendo progetti di ricerca in real life, fondamentali sia per acquisire conoscenze sempre più approfondite sulla patologia, sia sul trattamento che sulla gestione degli eventi avversi. L’ascolto da parte dell’oncologo è uno strumento chiave per la terapia del tumore, a patto che sia un momento strutturato nel rapporto medico-paziente. Per questo la Fondazione SmithKline, con il nostro supporto e in collaborazione con AIOM e FAVO ha sviluppato un programma di valutazione dei “Patient Reported Outcomes” (PRO’s), ovvero della percezione del malato sulla terapia che sta seguendo, perché la qualità di vita rappresenta un elemento imprescindibile nel trattamento delle patologie oncologiche. Oggi c’è un allineamento totale tra la ricerca e l’evoluzione del paziente, che ha modo di offrire il proprio
contributo in termini di sicurezza e tollerabilità del farmaco che assume attraverso sistemi di raccolta di informazioni strutturati e scientificamente validati. GSK vuole proseguire in questo percorso che ha radici antiche: siamo stati tra i primi a sviluppare misurazioni della qualità di vita nel trattamento dell’ulcera peptica e dell’asma e oggi stiamo contribuendo a sviluppare progettualità specifiche per l’oncologia. L’obiettivo è arrivare a fare ricerca su quanto ascoltiamo come medici, e non su quello che il medico pensa che il paziente pensi”.

 

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