Il Lupus Eritematoso Sistemico (LES) è una malattia così poliedrica e difficile da diagnosticare che anche il celebre dott. House, nonostante l’abbia chiamata in causa in più occasioni, non è mai riuscito a definirla quale giusta soluzione dei suoi casi. Il paragone potrà forse strappare un sorriso agli appassionati della serie TV ma è utile per comprendere la complessità clinica di una malattia che si presenta in maniera multiforme, a volte con sintomi tipici (rash cutaneo, artrite, nefropatia), altre volte con manifestazioni generiche (febbre, anemia, stanchezza o dolori muscolari).

Il Lupus è una malattia autoimmune, che insorge quando le cellule del sistema immunitario colpiscono il bersaglio sbagliato, con produzione di auto-anticorpi che si rivolgono contro l’organismo e generano una risposta immunitaria anomala ed eccessiva. Questo è uno degli aspetti della malattia che contribuisce in larga parte all’evoluzione di un fenotipo eterogeneo e ne rende difficile la diagnosi in tempi brevi, con un forti conseguenze sul piano prognostico. Infatti, una diagnosi tempestiva permette l’inizio di un percorso terapeutico in grado di migliorare considerevolmente sia la prognosi che la qualità di vita dei pazienti, che alternano momenti di remissione a periodi i intensa acutizzazione della malattia, durante i quali sono costretti ad affrontare sintomi sfibranti sul piano fisico e psicologico e che possono avere esiti estremamente pericolosi.

Nell’intento di raccogliere maggiori informazioni sull’impatto della malattia e sul suo decorso in una vasta coorte di pazienti, otto tra i più importanti centri specialistici italiani, in collaborazione con l’associazione Gruppo LES Italiano – onlus, hanno organizzato e condotto uno studio prospettico multicentrico che ha visto l’arruolamento di pazienti con recente diagnosi di LES (meno di 12 mesi), i quali sono stati sottoposti ad analisi e valutati secondo precisi standard internazionali. I risultati sono stati appena pubblicati sulla rivista Lupus e rivelano che, dei 122 pazienti arruolati, l’84.4% è rappresentato da pazienti di genere femminile, confermando che la malattia colpisce con più frequenza le donne (rapporto M/F 10:1). Inoltre, a conferma che il LES esordisce tra la terza e la quarta decade di vita, è risultato che l’età media d’insorgenza dei primi sintomi era di 34.8 anni e quella alla diagnosi era di 36.9 anni.

La valutazione dei pazienti è stata effettuata utilizzando sia l’indice di attività della malattia (ECLAM) che quello di danno (SLICC), ai quali è stato accompagnato il dosaggio dei principali auto-anticorpi (ANA, anti-dsDNA, anti-SSA, anti-SSB, anti-Sm, anti-RNP, anti-cardiolipina, anti-beta2 glicoproteina e il test per il lupus anticoagulante). Ciò che è emerso è che, nella popolazione oggetto di studio, la positività ad ANA (97.5%), la presenza di disordini immunologici (85.2%) e l’artrite (61.8%) rappresentavano la più diffusa manifestazione di LES (dalla comparsa dei primi segnali all’arruolamento), mentre il rash cutaneo era meno diffuso (31.1%). Tuttavia, la sintomatologia clinica più comune era legata alla sfera muscolo-scheletrica (57.1%) e questo fa supporre che in tanti casi i pazienti abbiano l’occasione di consultare uno specialista in reumatologia, limitando eventuali ritardi diagnostici.

Altri importanti risultati dello studio sono legati all’alta percentuale di pazienti (78%) nei quali è stata confermata la positività agli anticorpi anti-DNA nativo a doppia elica (anti-dsDNA), facilmente riconducibili a LES, e ai bassi livelli del complemento (insieme alle citochine è uno dei fattori coinvolti nelle reazioni autoimmunitarie): la combinazione di questi elementi è in grado di facilitare la diagnosi specifica di LES.

Durante lo studio i ricercatori hanno anche tentato di stabilire se esistano differenze cliniche nel fenotipo della malattia tra uomini e donne: nonostante la casistica non abbia permesso di trarre conclusioni definitive si è osservato che negli uomini prevaleva una sintomatologia a livello muscolo-scheletrico e neuropsichiatrico. Questo aspetto merita ulteriori approfondimenti perché il manifestarsi della malattia in maniera differenziale da un genere all’altro potrebbe comportare ritardi diagnostici che si traducono in una prognosi più severa.

È stato, infine, osservato che il danno iniziale e l’attività della malattia crescono gradualmente a partire dalla comparsa dei primi sintomi, implicando la necessità di un rapido ricorso alla terapia – che consiste generalmente nella somministrazione di corticosteroidi – evitando così l’eventualità di trattamenti tardivi e prolungati che possono comportare un aumento del rischio di infezioni.

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