Il carcinoma a cellule di Merkel (CCM) è un raro tumore della pelle ricondotto alla famiglia degli APUDomi e definito come 'carcinoma neuroendocrino della cute'. Fu descritto per la prima volta nel 1972. Colpisce un sottogruppo di cellule neuroendocrine cutanee - le cellule di Merkel - dalle quali il nome. Si tratta di una forma tumorale primitiva, contraddistinta dalla comparsa – specialmente a livello della testa e del collo – di lesioni eterogenee di varie dimensioni, che solitamente si manifestano come un nodulo color carne o rosso-bluastro, duro, indolore e lucido. L’infezione da poliomavirus a cellule di Merkel rappresenta uno dei principali fattori di rischio di CCM.

La malattia di Wilson è una patologia ereditaria caratterizzata dalla ridotta eliminazione del rame nella bile da parte del fegato. Tale difetto comporta un accumulo di rame nel fegato e in altri organi quali il sistema nervoso centrale, la cornea (dove si può formare l’anello di Kayser-Fleischer), il rene, le ossa. L'accumulo di rame danneggia consistentemente questi organi ed è responsabile della comparsa di sintomi e segni clinici.

Nei bambini e negli adolescenti la malattia di Wilson si manifesta più frequentemente con una patologia del fegato, mentre nei giovani e negli adulti si può manifestare anche con problemi neurologici. In alcuni casi la malattia di Wilson può esordire con disturbi del comportamento e della sfera psichica che possono simulare una patologia psichiatrica.   
Il tempestivo riconoscimento della malattia è reso difficoltoso dal fatto che la malattia epatica spesso decorre in modo asintomatico e quando la malattia di Wilson si presenta in modo sintomatico nessuno dei segni clinici di presentazione è esclusivo. La malattia epatica può essere diagnosticata in seguito al riscontro di alterazioni delle transaminasi e/o per un deficit degli indici di sintesi epatica (albumina e fattori della coagulazione). Talora la malattia può presentarsi con una complicanza della cirrosi (ascite, emorragia digestiva), in rari casi come un’epatite fulminante caratterizzata da insufficienza epatica grave associata ad anemia emolitica.

Il danno del sistema nervoso si può esprimere con tremori, incapacità a svolgere attività che richiedono una buona coordinazione tra la vista e le mani, alterazioni del tono muscolare, difficoltà ad articolare le parole, movimenti involontari. Anche i sintomi psichici non hanno specificità assoluta: frequentemente prendono la forma di un comportamento incongruo, irritabilità, depressione, allucinazioni ed idee deliranti.

La malattia di Wilson, una volta diagnosticata, può essere efficacemente controllata attraverso una opportuna terapia farmacologica. Il tipo di terapia dovrà essere stabilito dal centro specialistico in base all’età del paziente, al quadro clinico presente all’esordio, al comportamento clinico-laboratoristico del paziente in corso di terapia. La malattia di Wilson, quando è adeguatamente trattata, ha una prognosi eccellente con una speranza di vita che coincide con quella della popolazione generale. Il trattamento deve però essere proseguito per tutta la vita. Il soggetto affetto da malattia di Wilson, soprattutto se diagnosticato in età pediatrica e in tutti i casi in cui la malattia non ha avuto il tempo di danneggiare l’organismo, può svolgere una vita normale senza alcuna particolare limitazione.

E’ consigliabile che i pazienti con malattia di Wilson siano seguiti presso centri specialistici con elevata competenza nella diagnosi e gestione di questa malattia rara. E’ comunque auspicabile che il medico di famiglia o il pediatra di famiglia, nel caso dei pazienti pediatrici, sia coinvolto, per migliorare l’interazione tra paziente, medico curante e centro specialistico.


Testo a cura del professor Raffaele Iorio, Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Sezione di Pediatria, Università di Napoli Federico II.

La Sindrome di Cushing (CS) è una condizione clinica caratterizzata dall'eccesso di ormoni glucocorticoidi nel circolo ematico. Fu descritta nel 1932 dal chirurgo americano Harvey Williams Cushing considerato il padre della neurochirurgia.
Il cortisolo è un ormone prodotto normalmente dalle ghiandole surrenali ed è fondamentale per la vita: permette di rispondere alle situazioni di stress, come ad esempio le malattie, e ha effetti su quasi tutti i tessuti dell’organismo. Viene prodotto in picchi, più frequenti al mattino e molto ridotti di notte.
Quando l’organismo produce troppo cortisolo, a prescindere da quale ne sia la causa, siamo in presenza della Sindrome di Cushing.
La prevalenza di CS endogena è di 1/26.000 e, nell'UE, l'incidenza annuale è di 1/1.400.000-1/400.000, con un picco a 25-40 anni.

CAUSE
La sindrome può essere endogena (causata dalla produzione del cortisolo a livello della corteccia surrenale) o esogena (causata dalla conseguenza di assunzione di farmaci). Alcuni pazienti sviluppano la Sindrome di Cushing a causa di tumore delle ghiandole surrenali che produce un eccesso di cortisolo. Altri pazienti sviluppano la Sindrome di Cushing perché producono un eccesso di adrenocorticotropina  (ACTH), ormone che stimola le ghiandole surrenali a produrre cortisolo. Solo quando l’ACTH proviene dall’ipofisi la condizione viene definita malattia di Cushing. Tumori secernenti ACTH possono originare anche in altre zone nell’organismo e vengono detti ectopici.

LA CS esogena può essere causata da antinfiammatori steroidei, co-somministrazione di ritonavir in pazienti con HIV o forti dosi di megestrolo. La CS rientra nel quadro clinico di alcune malattie genetiche rare: neoplasia endocrina multipla tipo 1 (MEN 1), complesso di Carney (CNC), sindrome di McCune-Albright (MAS) e Li-Fraumeni (LFS), adenoma ipofisario isolato familiare (FIPA).

MALATTIA DI CUSHING

La Malattia di Chushing è la causa più comune dell’omonima sindrome. Si tratta di una patologia endogena, dovuta all’ipersecrezione ipofisaria cronica di ACTH causata da un adenoma corticotropo ipofisario. Nella malattia di Cushing un tumore ipofisario produce ACTH, che stimola la produzione surrenalica di cortisolo. La malattia di Cushing è di fatto la causa più comune della CS.

SINTOMI

Segni clinici tipici sono obesità facciale e del tronco, segni di ipercatabolismo (assottigliamento della cute, strie violacee, ecchimosi, formazione di lividi senza traumi evidenti, debolezza muscolare prossimale con amiotrofia, osteoporosi inspiegabile) e, nei bambini, aumento del peso con ridotta velocità di crescita. Altri segni meno specifici sono affaticamento, pressione ematica elevata, intolleranza al glucosio, ipokaliemia, acne, irsutismo, irregolarità mestruale, calo della libido, disfunzione erettile e disturbi neuropsicologici (depressione, irritabilità emotiva, disturbi del sonno, deficit cognitivo, aumentata suscettibilità alle infezioni, urolitiasi). La CS lieve (subclinica od occulta) è più comune di quanto si ritenesse in passato ed è identificata nel corso di indagini per diabete, osteoporosi, ipertensione o disturbi neuropsicologici.


DIAGNOSI


I soli sintomi e segni clinici non sono sufficienti a diagnosticare la CS. Sono infatti necessari dei test di laboratorio che determinino se troppo cortisolo è prodotto spontaneamente, o se il normale sistema di controllo degli ormoni non sta funzionando correttamente.
I test più comunemente usati misurano la quantità di cortisolo nella saliva o nelle urine. E’ anche possibile controllare se il cortisolo rimane elevato somministrando desametasone che riproduce l’effetto del cortisolo. Questo viene chiamato test di soppressione al desametasone. Se l’organismo sta correttamente regolando la produzione di cortisolo i livelli diminuiscono, cosa che non accade in chi ha la sindrome di Cushing.
Ricordiamo che esistono anche altre condizioni patologiche che possono mimare la CS, chiamati stati di “Pseudo-Cushing”. In questi casi è necessario porre una diagnosi differenziale.

I pazienti con sindrome di Cushing di origine surrenalica hanno bassi livelli di ACTH nel sangue mentre pazienti con sindrome di Cushing da altra causa hanno livelli normali o elevati. E’ possibile diagnosticare un eccesso di ACTH misurandone i livelli nel sangue.
Il test migliore per distinguere un tumore secernente ACTH nell’ipofisi da uno situato in un altro zona dell’organismo è una procedura chiamata cateterismo dei seni petrosi inferiori o IPSS. Esso prevede l’inserimento di cateteri nelle vene destra e sinistra della regione inguinale (o del collo) per raggiungere le vene vicino all’ipofisi. Un prelievo di sangue viene effettuato da queste sedi e da una vena periferica (braccio).Durante la procedura viene iniettato un farmaco che aumenta i livelli di ACTH.
Confrontando i livelli di ACTH presenti nelle vicinanze della ghiandola ipofisi in risposta al farmaco con quelli presenti in altre parti dell’organismo è possibile fare la diagnosi.

Altri esami vengono usati per la diagnosi sindrome di Cushing sono  il test di soppressione al desametasone e test di simulazione con l’ormone rilasciante la corticotropina (CRH). E’ anche possibile visualizzare la presenza di un tumore ipofisario con la risonanza magnetica con mezzo di contrasto, ma l’assenza di un tumore alla RM non esclude necessariamente la malattia di Cushing.

TERAPIA

In presenza della sindrome di Cushing i trattamenti di prima linea sono rappresentati l’asportazione del tumore, la riduzione dalla sua capacità di produrre ACTH, o l’asportazione delle ghiandole surrenali. Alcuni dei sintomi possono essere trattati con terapie specifiche, per minimizzare i danni.

La rimozione del tumore ipofisario è il modo migliore per trattare la malattia di Cushing. Ciò è raccomandato in coloro che hanno un tumore che non si estende al di fuori dell’area ipofisaria e che sono in buone condizioni per sottoporsi all’ anestesia. La via meno traumatica per effettuare l’intervento è la chirurgia trans-sfenoidale (intervento effettuato passando per naso o il labbro superiore e attraverso il seno sfenoidale per raggiungere il tumore).
La rimozione del tumore lascia il resto della ghiandola ipofisaria intatto così che alla fine funzionerà normalmente. La percentuale di successo è del 70- 90% quando l’intervento è eseguito da un chirurgo esperto. La percentuale di successi riflette l’esperienza del chirurgo che esegue l’intervento. Il tumore può tuttavia recidivare nel 15% dei pazienti, probabilmente a causa dell’incompleta rimozione del tumore all’interevento iniziale.
Altre opzioni di trattamento includono l’irradiazione dell’intera ghiandola o la radioterapia diretta sul bersaglio (chiamata radiochirurgia), quando il tumore è visibile in RM. Questo può essere usato come trattamento unico oppure nel caso in cui la chirurgia ipofisaria non abbia avuto completo successo. Queste
metodiche possono richiedere fino a 10 anni per avere un effetto completo.

Nel frattempo i pazienti devono assumere farmaci per ridurre la produzione surrenalica di cortisolo. Un importante effetto collaterale della radioterapia è che può colpire le altre cellule ipofisarie che producono ormoni differenti. Come conseguenza, fino al 50% dei pazienti ha la necessità di assumere una
terapia sostitutiva ormonale entro dieci anni dal trattamento.
L’asportazione di entrambe le ghiandole surrenali elimina la capacità dell’organismo di produrre cortisolo. Poiché gli ormoni surrenali sono indispensabili per la vita, i pazienti dovranno assumere un farmaco simile al cortisolo ed all’ ormone aldosterone, che controlla l’equilibrio dei sali minerali e dell’acqua, tutti i giorni per il resto della loro vita.

Esiste anche una terapia framacologica, utilizzata per abbassare i livelli di cortisolo.
E’ il caso del pasireotide è un “analogo della somatostatina”, una copia dell’ormone naturale somatostatina, nota  per la capacità di bloccare il rilascio di ACTH. I recettori della somatostatina si trovano solitamente in  concentrazioni elevate sulle cellule tumorali, compresi i tumori dell’ipofisi che causano la malattia di  Cushing. Analogamente alla somatostatina, il pasireotide si lega a tali recettori e blocca la secrezione  eccessiva di ACTH. Poiché gli ormoni ACTH stimolano la produzione di cortisolo, una loro riduzione  contribuisce a diminuire i livelli di cortisolo nell’organismo, alleviando così i sintomi della malattia
Il farmaco è oggi approvato come trattamento di seconda linea, cioè per quei pazienti per i quali l’intervento chirurgico non sia possibile o non sia risultato risolutivo.

LA PATOLOGIA

Il tumore al colon-retto è il terzo tipo di neoplasia più diffusa in Italia, con circa 35 mila nuovi casi l’anno. La malattia è abbastanza rara prima dei 40 anni e si manifesta più frequentemente dopo i 60 anni. In genere si sviluppa a partire da polipi, ovvero delle piccole escrescenze sulla mucosa intestinale che si formano a causa di una proliferazione cellulare anomala. In molti casi i polipi sono benigni, soprattutto se di piccole dimensioni, e la percentuale che si trasformino in tumore è piuttosto bassa (inferiore al 10%). La trasformazione in senso maligno di un polipo, invece, porta alla proliferazione tumorale della mucosa intestinale e alla possibile diffusione del tumore anche verso il fegato, l’organo più strettamente collegato al distretto colorettale. Le recenti scoperte scientifiche hanno evidenziato un’eterogeneità genetica alla base del tumore al colon-retto, che può determinare una progressione e una risposta alle terapie diversa da un paziente all’altro.

BASI GENETICHE
Seppure sia una neoplasia molto diffusa nella popolazione, alcune varianti genetiche del tumore al colon-retto sono ben più rare e necessitano di percorsi terapeutici diversi dai chemioterapici di prima linea generalmente impiegati. Un difetto nel recettore del fattore di crescita epidermico (EGFR) rende il tumore insensibile ai chemioterapici classici, una difficoltà oggi raggirata grazie all’impiego di anticorpi monoclonali selettivi per questo bersaglio. Tumori al colon-retto più aggressivi e di rapida progressione sono frequentemente associati a una mutazione nel gene KRAS, che codifica per una proteina attivata dal EGFR. Screening genetici sulla popolazione di pazienti con questo tipo di tumore in fase metastatica hanno individuato che la mutazione nel gene KRAS è comune al 40% dei casi e determina una mancata risposta alle terapie. Studi più recenti hanno messo in luce che il gene KRAS può ‘rompersi’ in qualsiasi momento: questo si verifica in pazienti che manifestano la cosiddetta resistenza acquisita alle terapie, ovvero che smettono di rispondere improvvisamente ai trattamenti fino a quel momento risultati efficaci. Oltre al gene KRAS è stato identificato un altro protoncogene chiamato HER-2, anch’esso coinvolto in un’evoluzione più aggressiva della malattia e una resistenza alla chemioterapia classica. Individuare le basi molecolari che caratterizzano il tumore è importante per definire un piano terapeutico ‘personalizzato’: la presenza di alcune mutazioni genetiche, infatti, è predittiva per l’efficacia di una terapia e consente di scegliere i farmaci da cui il paziente potrà trarre maggiore beneficio.

SINTOMI
In genere il tumore del colon-retto non dà sintomi specifici e un terzo dei pazienti che arriva alla diagnosi ha una neoplasia in stadio avanzato e già diffusa al fegato. Esistono dei segnali, per lo più aspecifici, che possono sollevare il sospetto di tumore: disturbi nell’evacuazione (stitichezza alternata a diarrea), stanchezza, mancanza di appetito, perdita di peso repentina e anemia. La presenza di sangue nelle feci può insospettire e richiede degli accertamenti, tuttavia solo nel 5% dei casi è imputabile a un polipo maligno.

DIAGNOSI

La ricerca di una massa tumorale nella regione addominale è il primo passo dell’iter diagnostico in caso di sospetto. La colonscopia è l’esame più specifico per individuare polipi e lesioni nel tratto intestinale ed è suggerita come screening per la prevenzione di questo tumore a partire dai 50 anni di età. La diagnosi è poi confermata da biopsia, ovvero il prelievo di un campione di tessuto dall’escrescenza anomala individuata durante la colonscopia, e ulteriori test diagnostici (clisma opaco, ecografia transrettale, TAC addominale). Alla diagnosi clinica si aggiunge oggi il test genetico, che completa il profilo del tumore al colon-retto diagnosticato.

TERAPIA
La scelta dei farmaci che possono risultare più efficaci in un paziente dipende dall’analisi genetica. L’asportazione della massa tumorale rimane comunque il trattamento di elezione. In molti casi di tumore in stadio avanzato, si possono eseguire dei cicli di chemioterapia prima dell’intervento chirurgico: questo approccio, chiamato terapia neoadiuvante, mira a diminuire le dimensioni del tumore con i trattamenti farmacologici in modo da semplificarne l’asportazione chirurgica e rendere possibile l’intervento anche in casi considerati altrimenti inoperabili. La complessità del tumore del colon-retto richiede un approccio multidisciplinare e, in genere, il piano terapeutico è complesso e si avvale di tutti i trattamenti oggi a disposizione, affiancando a chemioterapia, radioterapia e chirurgia anche farmaci sperimentali di nuova generazione. Gli anticorpi monoclonali, come il cetuximab e il panitumumab, si sono dimostrati efficaci nel trattamento di tumore con mutazione di EGFR e sono oggi adottati nel trattamento della maggior parte dei casi di tumore del colon-retto. La presenza di mutazioni nel gene KRAS induce una resistenza alla terapia con anticorpi monoclonali: in questa sottopopolazione di pazienti regorafenib, valutato nello studio di fase III CORRECT, ha dimostrato di essere efficace, in combinazione con la migliore terapia di supporto (BSC). Il farmaco, un inibitore multi-chinasico, ha dimostrato la sua efficacia anche in tumori metastatici del colon-retto con gene KRAS non mutato (KRAS wild-type) ed è una valida opzione terapeutica per i più rari tumori gastrointestinali stromali (GIST) che non rispondono alle terapie standard.

Il carcinoma midollare della tiroide (CMT) è uno dei tumori tiroidei meno diffusi, di cui rappresenta il 5-10% dei casi. In Italia questa forma tumorale colpisce circa 200 individui ogni anno e si manifesta frequentemente in età giovanile. Origina dalle cellule C della tiroide che secernono calcitonina, un ormone coinvolto nel mantenimento delle concentrazioni di calcio nel sangue entro i valori fisiologici. In caso di proliferazione tumorale la calcitonina viene prodotta in eccesso, alterando questo equilibrio. Dal punto di vista epidemiologico esistono due forme di carcinoma midollare della tiroide: la forma sporadica (75%) e la forma familiare (25%) con differenti risvolti diagnostico terapeutici.

LA MALATTIA

Il tumore della tiroide, una ghiandola a forma di farfalla posta nella regione anteriore del collo, è poco diffuso: si registra tuttavia che il numero dei casi sia raddoppiato negli ultimi 20 anni. E’ il sesto tipo di tumore per frequenza nelle donne, con un incidenza alla diagnosi tre volte maggiore per le donne rispetto agli uomini. Ogni anno sono diagnosticati più di 160.000 nuovi casi di tumore della tiroide e circa 25.000 persone muoiono, ogni anno, nel mondo per questa patologia.
Il 90% delle forme tumorali tiroidee è rappresentato dall’adenocarcinoma papillare e dall’adenocarcinoma follicolare. Entrambe le forme tumorali originano dalle cellule che secernono gli ormoni tiroidei e si parla genericamente di tumore differenziato della tiroide.
La tiroide produce due ormoni, la tiroxina e la triidotironina, che svolgono un ruolo importante nel corretto svolgimento della maggior parte delle attività metaboliche e dei processi di crescita. La crescita anomala di alcune cellule che compongono la tiroide può determinare la formazione di un nodulo e comportare un’alterata produzione ormonale, con conseguenze sull’intero organismo. La maggior parte dei tumori tiroidei differenziati sono trattabili, ma i tumori refrattari al radio-iodio, localmente avanzati o metastatici, sono più difficili da trattare e sono associati a tassi di sopravvivenza più bassi.

SINTOMI
Tutte le malattie che colpiscono la tiroide sono caratterizzate da sintomi aspecifici perciò possono rimanere silenziose per anni. Nel caso del tumore differenziato, è la presenza di un nodulo a far nascere il sospetto da parte del medico. Le forme tumorali tiroidee sono associate anche a segnali come un gonfiore nella parte anteriore del collo o dei linfonodi, mal di gola persistente, raucedine o cambiamento improvviso della voce, difficoltà di deglutizione e respiratorie. E’ tuttavia difficile riconoscere la patologia precocemente e, in genere, controlli regolari che includano la palpazione del collo e il dosaggio degli ormoni tiroidei sono importanti per individuare un malfunzionamento della ghiandola.

DIAGNOSI
L’individuazione di un nodulo nella regione anteriore del collo può essere un segnale significativo per eseguire ulteriori accertamenti. Tuttavia, queste formazioni sono spesso di piccole dimensioni e non riconoscibili al tatto. L’esame del sangue è, in genere, il primo passo nel percorso diagnostico: il dosaggio degli ormoni tiroidei, infatti, segnala in modo certo una disfunzione della ghiandola. Ecografia, TAC e risonanza magnetica sono gli esami che consentono di localizzare un nodulo e stabilirne le dimensioni e la sua eventuale diffusione ai linfonodi circostanti. E’ la biopsia a confermare la diagnosi di tumore e può essere eseguita con il semplice prelievo di un campione di tessuto oppure asportando l’intera ghiandola, qualora il nodulo sia di grandi dimensioni e ci sia più di un sospetto della natura tumorale della massa.

TERAPIA
I tumori differenziati della tiroide, contrariamente alle forme neoplastiche più rare che colpiscono la ghiandola, reagiscono positivamente alla terapia a base di radio-iodio e hanno una prognosi a 5 anni favorevole nell’85% dei casi. La rimozione chirurgica della tiroide è il primo passo del percorso terapeutico e può essere estesa anche ai linfonodi circostanti, qualora gli esami diagnostici abbiano confermato un loro coinvolgimento nella progressione tumorale. I pazienti sottoposti a tiroidectomia iniziano, subito dopo l’intervento, la terapia ormonale sostitutiva che consente di compensare il deficit di ormoni e ripristina un equilibrio nelle attività regolate dalla tiroide.

Qualora il tumore diagnosticato sia già in fase avanzata o particolarmente aggressivo, la chemioterapia segue l’intervento chirurgico. Al posto della radioterapia classica è oggi più indicata la terapia radiometabolica, a base di iodio radioattivo, che consente di distruggere in modo più selettivo le cellule tumorali dell’adenocarcinoma.
Per i pazienti refrattari anche alla terapia radiometabolica è in attesa di autorizzazione al commercio un antitumorale ad uso orale, sorafenib, già utilizzato per il trattamento del tumore  epatico e dei pazienti con tumore avanzato del rene che hanno fallito terapie a base di interferone o interleuchina 2, o che non sono considerati idonei a queste terapie.
Negli studi di preclinica, sorafenib ha dimostrato di inibire un gruppo di chinasi coinvolte sia nei processi di  proliferazione cellulare (crescita del tumore) che dell’angiogenesi (afflusso sanguigno al tumore) – due processi importanti che permettono al tumore di crescere. Queste chinasi  includono Raf -kinase, VEGFR-1, VEGFR-2, VEGFR-3, PDGFR-B, KIT, FLT-3 e RET. La richiesta di autorizzazione al commercio con questa nuova indicazione è stata presentata all’inizio del 2013 in base ai risultato positivo dello studio DECISION (stuDy of sorafEnib in loCally advanced or metastatIc patientS with radioactive Iodine refractory thyrOid caNcer) che ne ha valutato efficacia e sicurezza rispetto al placebo e dimostrato un aumento della sopravvivenza senza progressione della malattia. Il trial internazionale, multicentrico randomizzato, è stato svolto su 417 pazienti con tumore differenziato della tiroide localmente avanzato o metastatico, refrattario al radio-iodio che non avevano ricevuto trattamenti chemioterapici, con inibitori delle tirosin-chinasi, anticorpi monoclonali  anti  VEGF o anti recettori del VEGF o altre terapie a bersaglio (target therapy).

La macula è la porzione centrale della retina, tessuto fotosensibile in grado di convertire gli stimoli luminosi (immagini) in impulsi elettrici trasmessi poi dalle fibre nervose (nervo ottico) al cervello. Nella regione maculare è presente un’alta densità di pigmento e di elementi cellulari quali i coni rispetto al resto della retina. Tutto ciò rende la regione maculare l’area nobile della retina preposta alla visione distinta. Questa importantissima parte dell’occhio può però andare incontro a problemi degenerativi che ne compromettono in maniera importante la funzione.   

La causa più frequente di degenerazione maculare è legata all’età e si parla di Degenerazione Maculare Senile (DMS). La malattia può presentarsi già a 50 anni e la sua incidenza aumenta al crescere dell’età. In Italia colpisce circa il 2% della popolazione, più di un milione di persone. Si stima che ogni anno in Italia si verifichino circa 63 mila nuovi casi di degenerazione maculare legata all’età.    
È la più comune causa di cecità legale nei paesi sviluppati nella popolazione oltre i 60 anni di età Attenzione: cecità legale non vuol dire che il soggetto ‘vive nel buio’ ma che presenta un grave stato di ipovisione. Nel caso della degenerazione maculare senile, infatti, il paziente perde in particolare le visione centrale. Chi ne è affetto, dunque, può arrivare, secondo le diverse forme, ad essere incapace di leggere, scrivere, di riconoscere i volti e distinguere i dettagli.     
Per rimanere nell’ambito delle malattie più diffuse la macula può essere interessata anche da altre patologie che si manifestano con maggiore frequenza nell’età avanzata come la retinopatia diabetica, eventi trombotici del circolo retinico – come l’Occlusione della Vena Centrale della Retina (CRVO) - e sindromi dell’interfaccia vitreo-retinica.

DEGENERAZIONE MACULARE SENILE (DMS)

La DMS ha una prevalenza che varia dall’ 8.5% al 11% nella fascia di età compresa tra i 65 e i 74 anni, e del 27% al di sopra dei 75 anni. Come evidenziano i dati e come specificato chiaramente dal nome si tratta di una malattia legata all'invecchiamento e dunque destinata ad avere un impatto sempre più ampio nella popolazione occidentale a causa dell’aumento delle aspettative di vita.
Con l'invecchiamento si manifestano, infatti, delle progressive modificazioni in un insieme di strutture situate al di sotto della retina maculare: epitelio pigmentato retinico, membrana di Bruch e coriocapillare.  La sclerosi dei vasi della coroide, l’accumulo di lipidi nella membrana di Bruch e le alterazioni del metabolismo dell'epitelio pigmentato retinico rendono difficoltoso il normale passaggio di ossigeno e nutrienti dalla coroide alla retina. Nello stesso tempo i detriti prodotti dai fotorecettori che normalmente vengono metabolizzati e eliminati dall'epitelio pigmentato retinico si accumulano a formare depositi sotto l'epitelio pigmentato.
La degenerazione maculare senile può essere distinta in due forme, la forma umida o essudativa ( DMSE) e
la forma secca (o atrofica). Tuttavia la forma secca, più diffusa, può mutare in forma umida. La forma secca, anche nello stadio iniziale, può mutare d’improvviso nella forma umida e non c’è possibilità di dire se e quando la forma secca muterà nella forma umida.

LA DEGENERAZIONE MACULARE UMIDA (DMLE)
La forma umida è più rara (colpisce il 10-15% dei pazienti), ma è spesso un’evoluzione della forma secca, progredisce più rapidamente ed è più grave. Questa forma è detta umida o essudativa perché caratterizzata dalla formazione di neovasi sottoretinici anomali dalla parete assai fragile. Questi vasi che si accrescono verso la retina sono estremamente permeabili e possono dare origine, quindi, alla comparsa di fluido sottoretinico, edema maculare, distacchi sierosi dell’epitelio pigmentato retinico e, nei casi più avanzati, tali vasi possono rompersi provocando un’emorragia retinica. La progressione della forma neovascolare è molto più rapida della forma non neovascolare e comporta la formazione di una cicatrice che rimpiazza l’epitelio pigmentato, i fotorecettori e la coroide della retina centrale
La degenerazione maculare senile neovascolare, caratterizzata da neovascolarizzazione coroideale (CNV), è presente in meno del 20% di tutti i casi di DMLE, ma è responsabile approssimativamente del 90% di tutti i casi di severa riduzione visiva legata alla DMLE


LA DEGENERAZIONE MACULARE SECCA

La forma secca è la più comune ed anche la meno grave. Interessa spesso entrambi gli occhi, ma può manifestarsi anche in modo asimmetrico Più del 85% delle persone con la forma intermedia e avanzata di degenerazione sono affette dalla forma secca.
La forma secca o atrofica è caratterizzata da un assottigliamento progressivo della retina centrale, che risulta scarsamente nutrita dai capillari e si atrofizza, determinando la formazione di una lesione atrofica in sede maculare con un aspetto talora a ‘carta geografica’ (areolare).
Tale forma mostra a livello maculare la presenza di ‘drusen’: si tratta di depositi di materiale ialino derivato da un alterato metabolismo delle cellule dei fotorecettori, secondario ad alterazioni dell’epitelio pigmentato (atrofia legata all’età), e ad un ispessimento della membrana di Bruch.
Se ne distinguono due tipi:
Hard drusen (meno gravi): piccole ,rotonde, ben delineate.
Soft drusen (più rischiose): più larghe e mal delimitate.

I TRE STRADI DELLA DEGENERAZIONE MACULARE SECCA
La Degenerazione legata all’età nella sua forma secca può manifestarsi in tre stadi in relazione alla progressione del danno maculare:
I)    Stadio precoce: drusen di piccole o medie dimensioni sono presenti a livello maculare in uno o in entrambi gli occhi. Generalmente non è presente un calo della capacità visiva negli stadi precoci.
II)     Stadio intermedio: a livello maculare sono presenti drusen di medie dimensioni o una o diverse drusen di grandi dimensioni. In questo stadio la visione centrale può cominciare ad alterarsi.
III)     Stadio avanzato: si riscontrano a livello maculare diverse drusen di grandi dimensioni che possono estendersi quanto la porzione di EPR distrutto. Ciò determina un progressivo e severo calo della visione centrale.

I FATTORI DI RISCHIO
Possiamo distinguere i fattori di rischio per questa malattia in ‘non modificabili’  e in ‘modificabili’
I FATTORI DI RISCHIO NON MODIFICABILI SONO:
ETÀ: unico fattore di rischio accertato
FATTORI GENETICI: Studi familiari e su gemelli omozigoti confermano la maggiore incidenza (rischio 3 volte maggiore) in parenti di primo grado di soggetti affetti da degenerazione maculare legata all’età.
RAZZA: maggiore prevalenza nella razza bianca.
SESSO: non è stata dimostrata una differenza statisticamente significativa nella prevalenza della patologia tra i due sessi. Il sesso femminile oltre i 75 anni sembra essere più colpito dalla DMLE essudativa.

FATTORI DI RISCHIO MODIFICABILI SONO QUELLI LEGATI ALLO STILE DI VITA:

FUMO: Fumare più di 20 sigarette al giorno aumenta di 3-4 volte il rischio di DMLE rispetto ai non fumatori. Un aumento del rischio permane, anche se ridotto, negli ex-fumatori. Si stima che il 30% dei casi di DMLE avanzata sia dovuto al fumo in quanto determinante un aumento di fattori ossidanti (danno cellulare), una riduzione del pigmento maculare e uno stimolo per l’angiogenesi.
ALCOOL: l’abuso di alcool sembrerebbe aumentare il rischio di sviluppare forme avanzate di DMLE.
DIETA: Aumentato apporto di grassi e ridotto apporto di vitamine (C, A, E) e carotenoidi, di  sali minerali e di acidi grassi omega-3
STRESS OSSIDATIVI: ESPOSIZIONE CRONICA ALLA LUCE: le radiazioni ultraviolette producono danni a carico delle cellule dei fotorecettori e dell’epitelio pigmentato, mediante la produzione di radicali liberi.

SINTOMI E  DIAGNOSI
Nelle fasi iniziali, soprattutto se la malattia colpisce un solo occhio, può non dare sintomi apprezzabili. Si può notare una riduzione della visione centrale, le parole appaiono sfocate durante la lettura, si può notare una macchia sfocata al centro o la distorsione delle linee dritte. La distorsione delle immagini è un sintomo frequente all'insorgere della forma umida neovascolare e deve indurre ad una visita oculistica urgente. Difetti del campo visivo centrale e distorsione possono essere apprezzati con un test semplice, la griglia di Amsler. Gli esami diagnostici fondamentali comprendono la misurazione dell’acutezza visiva, un attento esame del fondo oculare in biomicroscopia e la fluorangiografia. Quest’ultima utilizza una sostanza fluorescente alla luce blu (fluoresceina) che impregna la membrana neovascolare e la rende evidente. Sul reperto fluorangiografico la neovascolarizzazione può apparire ben delineata e chiaramente localizzabile (neovascolarizzazione classica), oppure può apparire mal definita e solo sospettabile (neovascolarizzazione occulta). In caso di neovascolarizzazione occulta può essere utile eseguire un secondo esame angiografico che utilizza un colorante fluorescente all’infrarosso (verde di indocianina) in grado di dare un’immagine più definita di questo tipo di neovasi.

TRATTAMENTO

Nello stadio avanzato della forma secca, ma solo in alcuni casi, si può provare la fotocoagulazione con laser termico. Si usa quando i vasi neoformati sotto la retina sono abbastanza lontani dal centro della macula, ma le recidive sono frequenti. Nella maggior parte dei casi per le forma secca non c’è trattamento.
Nella forma umide invece, in stadio avanzato, la terapia fotodinamica è il trattamento di elezione, utilizzato quando i vasi neoformati occupano il centro della macula e hanno determinate caratteristiche. Il trattamento è possibile all’incirca nel 30-40% dei casi. Nella terapia fotodinamica una sostanza fotosensibile (verteporfina) iniettata in vena va ad aderire all’endotelio del vasi neoformati. La verteporfina depositata viene quindi attivata con un laser non termico, e la reazione che ne consegue porta alla chiusura per trombosi dei vasi anomali. La retina adiacente non viene danneggiata. Di regola sono necessari più trattamenti nell'arco di 1-2 anni.
L'attenzione attuale è rivolta a terapie farmacologiche mirate all'inibizione del processo di angiogenesi che sta alla base della forma umida di degenerazione maculare. Si stanno valutando diversi farmaci inibitori del VEGF che è il mediatore chiave nel processo di neoformazione dei vasi. Un'attività antiangiogenica è stata riconosciuta ad alcuni steroidi. Vi sono esperienze positive, ma ancora limitate, con l'associazione dell'iniezione intravitreale di triamcinolone con la terapia fotodinamica in forme particolari di degenerazione maculare neovascolare.
Il paziente deve essere informato comunque che l'obiettivo della terapia non è di migliorare l'acuità visiva, ma di impedire un ulteriore peggioramento.

LA MALATTIA

Il Citomegalovirus (CMV) è un virus appartenente alla famiglia degli Herpesviridae. Si tratta di un agente infettivo  molto comune: nei Paesi sottosviluppati il 90-100% della popolazione  ne è contagiata, mentre in quelli occidentali il 60-80% degli adulti presenta anticorpi anti- Citomegalovirus nel siero. I sintomi, in età adulta e anche nell’infanzia, sono simili a quelli dell’influenza o della mononucleosi. Il virus è però particolarmente pericoloso se contratto dal feto, con una trasmissione verticale madre – figlio: in questo caso e si parla di citomegalovirus congenito.

L’infezione primaria* della madre durante i primi mesi di gravidanza rappresenta, infatti, un significativo fattore di  rischio per l’ aborto spontaneo,  o comunque per  serie conseguenze a carico del feto.
Negli Stati Uniti l’infezione congenita da Citomegalovirus è la più comune tra le infezioni congenite, con una prevalenza dello 0,64 %. All’incirca 1 bambino su 150 nati negli Stati Uniti viene infettato, con un totale di 30.000 casi ogni anno. Quasi 8000 bambini rimangono permanentemente disabili a causa dell’infezione dal virus, con sintomi quali ritardo dello sviluppo, sordità e perdita della vista. Circa 400 neonati muoiono ogni anno per questa causa e, oltre al danno emotivo e umano, tutto ciò si traduce all’incirca in 2 bilioni di dollari di spesa sanitaria annua.

L’INFEZIONE
L’infezione materna da CMV può essere primaria o non primaria.
Le infezioni non primarie consistono nella riattivazione di un’infezione latente o reinfezioni con un nuovo ceppo del virus. Nel caso di infezione non primaria la probabilità che questa si trasferisca al feto è limitata all’1% dei casi. Diversa è la situazione in caso di infezione primaria
*L’'infezione primaria insorge quando la madre entra a contatto con il virus per la prima volta.
Questo accade in circa l’1-4% delle donne in gravidanza e in questo caso la probabilità di trasmissione del virus al feto sale fino al 30- 40%. Se questa trasmissione avviene nei primi mesi di gravidanza è maggiore il rischio di  problemi per il feto, fino all’aborto spontaneo.
Per le donne in età riproduttiva il rischio maggiore di esposizione al virus è attraverso il contatto con l'urina o la saliva di bambini, infatti le donne con  figli piccoli o che lavorano in centri di accoglienza sono considerate “ a più alto rischio d’infezione”.
Il virus può tuttavia essere trasmesso anche attraverso il latte materno, lo sperma, emoderivati, secrezioni cervicali e liquido amniotico.

LA DIAGNOSI
Una volta infettata, la donna produce gli anticorpi IgM e IgG rivolti contro il virus. Il titolo anticorpale IgM è alto dal 1° al 3° mese (fase acuta) e poi decresce successivamente (fase di convalescenza). In alcuni casi, però, le IgM possono persistere fino a 6-9 mesi dopo l'infezione primaria.
Una volta che il virus è presente nel sangue materno gli anticorpi neutralizzanti legano l’antigene virale.
Ma tutti gli anticorpi sono neutralizzanti? Non proprio. Le IgG neutralizzanti sono quelle che legano con alta avidità l'antigene mentre gli anticorpi IgG a bassa avidità hanno scarsa capacità neutralizzante e sono indicativi di un'infezione recente.
La diagnosi di un’infezione primaria si basa sulla rilevazione e la dimostrazione di un’avvenuta sieroconversione degli anticorpi IgG. La sieroconversione è il passaggio dallo stato di sieronegatività (assenza di tali anticorpi nel plasma sanguigno) allo stato di sieropositività (presenza di tali anticorpi nel plasma sanguino).
Dal momento che lo screening di routine in donne a basso rischio non è  raccomandato, la sieroconversione è raramente documentata.
L’infezione primaria può essere sospettata in presenza di anticorpi IgM. Se gli anticorpi IgM sono presenti l'infezione può essere acuta. Tuttavia, essi possono essere presenti anche nella fase di convalescenza o durante infezioni non primarie.  Fino a poco tempo fa poteva essere difficile stabilire con certezza se si era di fronte ad una infezione primaria o meno, oggi però la certezza diagnostica è migliorata. Il test di avidità IgG è in grado di rilevare un’infezione acuta con il 92-100% di sensibilità e 82-100% di specificità.
Questo test determina se l'anticorpo IgG ha alta avidità, indicando una precedente infezione, o bassa avidità, indicando un’infezione primaria. All'anticorpo IgG occorrono da 18 a 20 settimane per dimostrare alta avidità dopo un’infezione acuta. Pertanto, un test di bassa avidità effettuato precedentemente al periodo che va dalla 18° alla 20° settimana di gravidanza può identificare tutte le donne ad alto rischio di gravi infezioni congenite.

PREVENZIONE DEL CONTAGIO MADRE – FETO

L’intervento ideale nella prevenzione dell’infezione congenita da Citomegalovirus (CMV) sarebbe la vaccinazione. Tuttavia, poiché un vaccino sicuro ed efficace  non è al momento disponibile , la strategia di prevenzione è focalizzata sull’educazione materna riguardo due temi: l’igiene, per non contrarre l’infezione in gravidanza, e il potenziale trattamento con immunoglobuline CMV-specifiche o. Questo ultimo tipo di intervento può infatti prevenire la trasmissione materno-fetale. Studi preliminari suggeriscono i che il trattamento con immunoglobuline dopo una infezione materna primaria documentata può ridurre il rischio di infezioni congenite.
Uno studio non randomizzato (Nigro et al – 2005) effettuato su 181 donne  con infezione primaria ha dimostrato il potenziale delle immunoglobuline come mezzo di prevenzione delle infezioni fetali.
Il gruppo di prevenzione era costituito da 37 donne che non avevano subito amniocentesi o perchè il tempo di gestazione era inferiore alle 20 settimane, o perché in prossimità della diagnosi (entro 6 settimane dall’infezione primaria) oppure per il semplice rifiuto di sottoporvisi.
A questo gruppo sono stati somministrati 100 U/kg di HIG ogni mese fino al parto.
Il gruppo di confronto era rappresentato da 47 donne che non avevano subito amniocentesi e che avevano anche rifiutato la terapia di prevenzione.
Nel gruppo di prevenzione il 16% dei neonati alle cui madri era stato somministrato HIG manifestavano un’ infezione congenita, contro il 40% dei neonati appartenenti al gruppo in cui le madri avevano rifiutato la terapia con HIG. Tuttavia esistono controversie riguardanti l’eterogeneità del gruppo di prevenzione, la mancanza di randomizzazione e l’esiguità del campione di questo studio.
Recentemente, i dati preliminari provenienti da uno studio randomizzato sull’uso di CMV HIG per la prevenzione sono stati negativi, con un tasso del 44% di infezioni congenite nel gruppo placebo contro un tasso del 30% nel gruppo di trattamento (p = 0.13). I risultati definitivi non sono stati ancora pubblicati.
Negli Stati Uniti è in corso anche un altro ampio e multicentrico studio randomizzato effettuato dalla Maternal-Fetal Medicine Units Network, l’arruolamento dovrebbe essere chiuso entro il 2016 (“A Randomized Trial to Prevent Congenital Cytomegalovirus Infection,” ClinicalTrials.gov # NCT01376778).

Il Citomegalovirus (CMV) è un virus appartenente alla famiglia degli Herpesviridae. Si tratta di un agente infettivo molto comune: nei Paesi sottosviluppati il 90-100% della popolazione ne è contagiata, mentre in quelli occidentali il 60-80% degli adulti presenta anticorpi anti- Citomegalovirus nel siero. I sintomi, in età adulta e anche nell’infanzia, sono simili a quelli dell’influenza o della mononucleosi. Il virus è però particolarmente pericoloso se contratto dal feto, con una trasmissione verticale madre – figlio: in questo caso e si parla di citomegalovirus congenito.

L’infezione primaria* della madre durante i primi mesi di gravidanza rappresenta, infatti, un significativo fattore di rischio per l’ aborto spontaneo, o comunque per serie conseguenze a carico del feto.
Negli Stati Uniti l’infezione congenita da Citomegalovirus è la più comune tra le infezioni congenite, con una prevalenza dello 0,64 %. All’incirca 1 bambino su 150 nati negli Stati Uniti viene infettato, con un totale di 30.000 casi ogni anno. Quasi 8000 bambini rimangono permanentemente disabili a causa dell’infezione dal virus, con sintomi quali ritardo dello sviluppo, sordità e perdita della vista. Circa 400 neonati muoiono ogni anno per questa causa e, oltre al danno emotivo e umano, tutto ciò si traduce all’incirca in 2 bilioni di dollari di spesa sanitaria annua.

L’INFEZIONE

L’infezione materna da CMV può essere primaria o non primaria.

Le infezioni non primarie consistono nella riattivazione di un’infezione latente o reinfezioni con un nuovo ceppo del virus. Nel caso di infezione non primaria la probabilità che questa si trasferisca al feto è limitata all’1% dei casi. Diversa è la situazione in caso di infezione primaria

*L’'infezione primaria insorge quando la madre entra a contatto con il virus per la prima volta.
Questo accade in circa l’1-4% delle donne in gravidanza e in questo caso la probabilità di trasmissione del virus al feto sale fino al 30- 40%. Se questa trasmissione avviene nei primi mesi di gravidanza è maggiore il rischio di problemi per il feto, fino all’aborto spontaneo.
Per le donne in età riproduttiva il rischio maggiore di esposizione al virus è attraverso il contatto con l'urina o la saliva di bambini, infatti le donne con figli piccoli o che lavorano in centri di accoglienza sono considerate “ a più alto rischio d’infezione”.

Il virus può tuttavia essere trasmesso anche attraverso il latte materno, lo sperma, emoderivati, secrezioni cervicali e liquido amniotico.



LA DIAGNOSI

Una volta infettata, la donna produce gli anticorpi IgM e IgG rivolti contro il virus. Il titolo anticorpale IgM è alto dal 1° al 3° mese (fase acuta) e poi decresce successivamente (fase di convalescenza). In alcuni casi, però, le IgM possono persistere fino a 6-9 mesi dopo l'infezione primaria.

Una volta che il virus è presente nel sangue materno gli anticorpi neutralizzanti legano l’antigene virale.

Ma tutti gli anticorpi sono neutralizzanti? Non proprio. Le IgG neutralizzanti sono quelle che legano con alta avidità l'antigene mentre gli anticorpi IgG a bassa avidità hanno scarsa capacità neutralizzante e sono indicativi di un'infezione recente.
La diagnosi di un’infezione primaria si basa sulla rilevazione e la dimostrazione di un’avvenuta sieroconversione degli anticorpi IgG. La sieroconversione è il passaggio dallo stato di sieronegatività (assenza di tali anticorpi nel plasma sanguigno) allo stato di sieropositività (presenza di tali anticorpi nel plasma sanguino).

Dal momento che lo screening di routine in donne a basso rischio non è raccomandato, la sieroconversione è raramente documentata.

L’infezione primaria può essere sospettata in presenza di anticorpi IgM. Se gli anticorpi IgM sono presenti l'infezione può essere acuta. Tuttavia, essi possono essere presenti anche nella fase di convalescenza o durante infezioni non primarie. Fino a poco tempo fa poteva essere difficile stabilire con certezza se si era di fronte ad una infezione primaria o meno, oggi però la certezza diagnostica è migliorata. Il test di avidità IgG è in grado di rilevare un’infezione acuta con il 92-100% di sensibilità e 82-100% di specificità.

Questo test determina se l'anticorpo IgG ha alta avidità, indicando una precedente infezione, o bassa avidità, indicando un’infezione primaria. All'anticorpo IgG occorrono da 18 a 20 settimane per dimostrare alta avidità dopo un’infezione acuta. Pertanto, un test di bassa avidità effettuato precedentemente al periodo che va dalla 18° alla 20° settimana di gravidanza può identificare tutte le donne ad alto rischio di gravi infezioni congenite.


PREVENZIONE DEL CONTAGIO MADRE – FETO

L’intervento ideale nella prevenzione dell’infezione congenita da Citomegalovirus (CMV) sarebbe la vaccinazione. Tuttavia, poiché un vaccino sicuro ed efficace non è al momento disponibile , la strategia di prevenzione è focalizzata sull’educazione materna riguardo due temi: l’igiene, per non contrarre l’infezione in gravidanza, e il potenziale trattamento con immunoglobuline CMV-specifiche o. Questo ultimo tipo di intervento può infatti prevenire la trasmissione materno-fetale. Studi preliminari suggeriscono i che il trattamento con immunoglobuline dopo una infezione materna primaria documentata può ridurre il rischio di infezioni congenite.
Uno studio non randomizzato (Nigro et al – 2005http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/16192480 )effettuato su 181 donne con infezione primaria ha dimostrato il potenziale delle immunoglobuline come mezzo di prevenzione delle infezioni fetali.
Il gruppo di prevenzione era costituito da 37 donne che non avevano subito amniocentesi o perchè il tempo di gestazione era inferiore alle 20 settimane, o perché in prossimità della diagnosi (entro 6 settimane dall’infezione primaria) oppure per il semplice rifiuto di sottoporvisi.

A questo gruppo sono stati somministrati 100 U/kg di HIG ogni mese fino al parto.

Il gruppo di confronto era rappresentato da 47 donne che non avevano subito amniocentesi e che avevano anche rifiutato la terapia di prevenzione.

Nel gruppo di prevenzione il 16% dei neonati alle cui madri era stato somministrato HIG manifestavano un’ infezione congenita, contro il 40% dei neonati appartenenti al gruppo in cui le madri avevano rifiutato la terapia con HIG. Tuttavia esistono controversie riguardanti l’eterogeneità del gruppo di prevenzione, la mancanza di randomizzazione e l’esiguità del campione di questo studio.

Recentemente, i dati preliminari provenienti da uno studio randomizzato sull’uso di CMV HIG per la prevenzione sono stati negativi, con un tasso del 44% di infezioni congenite nel gruppo placebo contro un tasso del 30% nel gruppo di trattamento (p = 0.13). I risultati definitivi non sono stati ancora pubblicati.

Negli Stati Uniti è in corso anche un altro ampio e multicentrico studio randomizzato effettuato dalla Maternal-Fetal Medicine Units Network, l’arruolamento dovrebbe essere chiuso entro il 2016 (“A Randomized Trial to Prevent Congenital Cytomegalovirus Infection,” ClinicalTrials.gov # NCT01376778).

Le sindromi mielodisplastiche (SMD) sono un gruppo di malattie del sangue caratterizzate da un difetto nel midollo osseo che non riesce più a produrre in numero sufficiente alcune linee cellulari del sangue come globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. Le SMD sono anche chiamate malattie preleucemiche perchè possono evolvere, con il tempo, in leucemia in forma acuta. La causa alla base di questo gruppo di malattie è ancora sconosciuta e si pensa sia associata a difetti genetici, ereditari o acquisiti.

DIFFUSIONE
Le Sindromi Mielodisplastiche sono tra le patologie più frequenti nella popolazione anziana e, sebbene possano insorgere a qualsiasi età, colpiscono principalmente dopo i 70 anni. Oggi si diagnosticano 12-15 mila nuovi casi ogni anno. Le SMD sono considerate malattie geriatriche e la loro diffusione sembra destinata a crescere in relazione al progressivo aumento dell’età della popolazione mondiale.

SINTOMI
Non ci sono sintomi specifici che possano ricondurre alle SMD. Tra le principali manifestazioni sono l’anemia, con pallore e spossatezza, una perdita di peso eccessiva, una maggiore predisposizione alle infezioni dovuta a un numero ridotto di globuli bianchi (leucopenia), emorragie ricorrenti associate a un calo nella produzione di piastrine (piastropenia). La classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, adottata dal 2008, consente la distinzione di diverse forme di SMD in relazione alle caratteristiche biologiche e genetiche delle cellule difettose nel sangue. Si riconoscono citopenia refrattaria con displasia unilineare (anemia refrattaria, neutropenia refrattaria, trombocitopenia refrettaria), anemia refrattaria con sideroblasti ad anello, citopenia refrattaria con displasia multilineare, anemia refrattaria con eccesso di blasti di tipo 1 e 2, sindrome mielodisplatica inclassificabile e sindrome mielodisplatica con delezione del braccio lungo del cromosoma 5 (5q).

Oltre alle manifestazioni cliniche dovute al deficit nel midollo osseo, i pazienti possono sviluppare altre condizioni come conseguenze della patologia. L’evoluzione in leucemia mieloide acuta si può verificare con tempi associati alla gravità della malattia iniziale che vanno da 2-3 mesi a dieci anni. Il ricorso a trasfusioni, per sopperire al numero insufficiente di globuli rossi, può comportare un accumulo di ferro a carico di fegato, pancreas, tiroide e cuore con conseguente perdita di funzionalità normale di questi organi.


DIAGNOSI
L’assenza di sintomi specifici e l’età avanzata dei pazienti più colpiti, che possono presentare delle comorbilità, rendono difficile la diagnosi precoce di SMD.
L’individuazione e classificazione di una di queste patologie si basa sulla biopsia del midollo osseo che consente la quantificazione della percentuale di blasti e delle altre linee cellulari del sangue. Il sospetto di queste forme patologiche, in genere, è sollevato da un’anemia grave non riconducibile ad altre malattie, per cui l’iter diagnostico prevede una serie di esami come emocromo, esami emato-chimici e radiologici prima di giungere alla biopsia midollare. Il 50-70% dei pazienti con SMD presenta delle alterazioni cromosomiche perciò l’attuale diagnosi comprende anche un’analisi del cariotipo.
Il Sistema di Punteggio Prognostico Internazionale (International Prognostic Scoring System - IPSS) aiuta i Medici nel convertire gli esiti di vari esami (numero di citopenie, numero di blasti e risultati dell’esame citogenetico) in un punteggio, che permette di prevedere con che probabilità la Sindrome Mielodisplastica può peggiorare e trasformarsi in una leucemia acuta ed è utile nel calcolo della sopravvivenza.


TERAPIA
Le SMD sono trattate come altre patologie tumorali del sangue, e il trapianto di midollo osseo è attualmente il solo trattamento in grado di guarirle.

Altre opzioni di trattamento includono la chemioterapia, che comporta l’impiego di più farmaci in associazione in schemi codificati, la terapia di supporto che consente di attenuare i sintomi legati al deficit del midollo attraverso trasfusioni, la somministrazione di farmaci antiemorragici, terapie ferrochelanti per ridurre l’accumulo di ferro negli organi e antibiotici per ridurre l’insorgere di infezioni.
Negli ultimi anni è stato introdotto l’uso di immunomodulanti, come lenalidomide, farmaco disponibile tramite la legge 648/96 per la sindrome mielodisplastica a basso rischio con delezione del braccio lungo del cromosoma 5, e immunosoppressori, come ciclosporina, steroidi, androgeni e globulina antitimocitaria, che agiscono sulla reazione autoimmunitaria di alcune di queste forme patologiche. La terapia con farmaci demetilanti è stata approvata per le SMD a più alto rischio, con azacitidina e decitabina, non approvata in Europa, e, soprattutto per pazienti che non possono sottoporsi al trapianto di cellule staminali.

Il mieloma multiplo è un tumore che colpisce il midollo osseo, la sede principale dell’organismo in cui vengono prodotte le cellule del sistema immunitario e del sangue. In particolare, questo tipo di neoplasia ha come bersaglio le plasmacellule, cellule immunitarie che hanno la funzione di produrre anticorpi e difenderci dalle infezioni. Le cellule del mieloma sono caratterizzate dalla produzione in eccesso di un anticorpo, noto come paraproteina o Componente M, che viene rilevato nel siero del paziente e facilita la diagnosi. Inoltre, viene prodotta anche una grande quantità di citochine, segnali dell’infiammazione, che possono interferire con la formazione delle altre cellule del sangue o con la sintesi di osteoclasti, le cellule dell’osso, innescando fragilità e fratture ossee tipiche di questa forma tumorale.
Si riconoscono diversi tipi di mieloma, in relazione al tipo di anticorpo prodotto in modo anomalo dalle cellule tumorali. Il più diffuso è il mieloma multiplo, localizzato nel midollo osseo e secernente immunoglobuline (per lo più IgG e IgA) nella loro forma completa. Le plasmacellule difettose possono produrre solo parti di anticorpi come nel mieloma micromolecolare che secerne solo le catene leggere dell’anticorpo. Una forma più rara del tumore è il mieloma non secernente, caratterizzato da un elevato numero di plasmacellule difettose ma che non producono anticorpi.

DIFFUSIONE
Il mieloma multiplo è il secondo tumore del sangue più diffuso, dopo il linfoma di non-Hodgkin. Si manifesta con l’avanzare dell’età e due terzi dei casi di mieloma multiplo insorgono dopo i 65 anni di età. Ogni anno in Italia si diagnosticano oltre 3 mila casi di mieloma, con un’incidenza lievemente maggiore negli uomini rispetto alle donne. Seppure non siano ancora state chiarite le cause alla base di questa neoplasia, negli ultimi anni si è assistito a un aumento del numero di casi, principalmente associato al generale avanzare dell’età nel mondo.

SINTOMI
Il dolore osseo, per lo più localizzato a livello del cranio, della schiena e delle anche, è il sintomo che caratterizza maggiormente il mieloma multiplo. Ad esso si associa anche una maggiore frequenza di fratture ossee, dovute all’interferenza delle immunoglobuline difettose con la sintesi di osteoclasti, indispensabile per mantenere integre le ossa. I pazienti colpiti manifestano anche astenia e debolezza, causate da una scarsa produzione di globuli rossi nel midollo osseo, ecchimosi e sanguinamenti, dovuti alla minore produzione di piastrine nel midollo colpito dal tumore (trompocitopenia). Il tumore può, infine, manifestarsi anche nell’insorgenza di insufficienza renale e neuropatie, associate ad alti livelli di calcio nel sangue per la distruzione delle cellule ossee, con conseguente manifestazione di debolezza e confusione mentale. I sintomi che caratterizzano il mieloma multiplo sono aspecifici e possono essere ricondotti anche ad altre patologie a carico di ossa, sangue e nervi, rendendo quindi difficile la diagnosi di tumore.

DIAGNOSI
La diagnosi di mieloma multiplo è difficile per la presenza di sintomi aspecifici o, in alcuni casi, di una forma silente della malattia.
A una prima analisi, il sospetto di questo tumore emerge principalmente dall’individuazione di elevati livelli di immunoglobuline nel sangue attraverso un esame di laboratorio chiamato elettroforesi delle proteine sieriche.
Per una diagnosi completa di mieloma multiplo e per monitorare il suo decorso sono importanti anche altri esami: esami del sangue (dosaggio di paraproteina, emoglobina, piastrine, globuli bianchi, albumina, calcio, acido urico, ecc), esame delle urine, esami radiologici (Rx, RMN, TAC, PET).

La biopsia del midollo osseo è un esame fondamentale per diagnosticare la malattia e consiste nel prelievo di un campione di osso tramite una siringa (aspirato midollare). Il campione viene esaminato per stabilire la percentuale di plasmacellule presenti nel midollo osseo e identificare il tumore: nel soggetto sano le plasmacellule sono inferiori al 5%, valori del 5-10% identificano una gammapatia monoclonale di significato incerto (MGUS) che raramente progredisce nel tumore ma è bene tenere sotto controllo, e valori maggiori al 10% sono associati al mieloma. Nei casi di mieloma silente o asintomatico la percentuale di cellule mielomatose è, in genere, compresa tra il 10-30%.

TERAPIA
La chemioterapia è, come per tutte le forme tumorali, un’importante opzione terapeutica tuttavia negli ultimi anni è stata confermata l’efficacia di alcuni trattamenti che hanno contribuito a prolungare la sopravvivenza media.

Dal 2000 sono stati introdotti alcuni farmaci che vengono utilizzati in combinazione con altri trattamenti o da soli. Alla talidomide, tristemente famosa per i suoi effetti collaterali nei neonati se assunto in gravidanza che la fece ritirare dal mercato ma che ha dimostrato una buona efficacia su questo tipo di tumore, si sono aggiunti, altri due agenti immunomodulatori da essa derivati, la lenamidomide e la pomalidomide. Di recente adozione per la terapia è anche il bortezomib, un inibitore reversibile del proteosoma.

Il trapianto di cellule staminali è stato introdotto negli anni ’90 e rappresenta un’opzione per riparare alla distruzione di cellule ematopoietiche dovute ad alte dosi di chemioterapici. Questo trattamento è, infatti, entrato nella pratica clinica per contribuire alla sopravvivenza del paziente sottoposto a cicli di terapia molto invasivi. Le cellule staminali sono prelevate dal sangue del paziente stesso (trapianto autologo) o dal midollo osseo di un donatore esterno (trapianto allogenico), e reimpiantate del paziente. Il trapianto autologo presenta minore rischio di rigetto tuttavia è associato a una maggiore probabilità che il tumore si ripresenti. Negli ultimi anni gli studi clinici hanno confermato una maggiore efficacia sul rallentamento della malattia del trapianto da donatore, e la tecnica è stata perfezionata per minimizzare gli effetti collaterali.

 

 

Seguici sui Social

Iscriviti alla Newsletter

Iscriviti alla Newsletter per ricevere Informazioni, News e Appuntamenti di Osservatorio Malattie Rare.

Sportello Legale OMaR

Tumori pediatrici: dove curarli

Tutti i diritti dei talassemici

Le nostre pubblicazioni

Malattie rare e sibling

30 giorni sanità

Speciale Testo Unico Malattie Rare

Guida alle esenzioni per le malattie rare

Partner Scientifici

Media Partner


Questo sito utilizza cookies per il suo funzionamento. Maggiori informazioni