Dietro un tipo di tumore piuttosto noto e con un'incidenza in notevole crescita, come il carcinoma della tiroide, può nascondersi una mutazione più diffusamente associata a neoplasie che insorgono in sedi diverse, come il melanoma. Il carcinoma della tiroide rappresenta la più comune tra le neoplasie del sistema endocrino e si classifica sostanzialmente in 3 categorie: papillare, follicolare e midollare. Il carcinoma papillare della tiroide ha subito negli ultimi anni una brusca impennata del numero di casi rispetto alla forma follicolare, contribuendo in maniera sensibile all'incremento dei casi di cancro della tiroide sia tra gli uomini che tra le donne.

La pratica della palpazione del collo è un primo e fondamentale passo per la diagnosi di questo tumore al quale è bene far seguire l’ecografia con eco-colordoppler della tiroide e l'agoaspirato per la conferma isto-citologica. L'esame citologico dei noduli tiroidei è una tecnica di primaria importanza con cui è possibile evidenziare che la gran parte di tali noduli è di natura benigna, consentendo di distinguere tra lesioni benigne e maligne. Esiste, tuttavia, un alto livello di incertezza per le lesioni Thy3 e Thy4 che non sono sempre classificabili correttamente come maligne o benigne. Per tal ragione è fondamentale l'apporto fornito dall'analisi molecolare grazie a cui i ricercatori sono in grado di individuare la presenza di mutazioni utili nella classificazione della lesione tumorale e, di conseguenza, nella gestione della corretta terapia.

Per quanto riguarda il carcinoma della tiroide è stato possibile risalire ad un gruppo di geni frequentemente associati alla malattia e che comprendono i protoncogeni RET e TRK e i geni RAS e BRAF. Quest'ultimo è legato alla trasmissione dei segnali che regolano la crescita e la riproduzione cellulare e una mutazione che lo coinvolge direttamente (BRAF V600E) è stata riscontrata in quasi la metà dei carcinomi papillari tiroidei.

Un gruppo di ricerca dell'Azienda Ospedaliero Universitaria “San Martino” di Genova, coordinato dalla prof.ssa Eleonora Monti ha indagato la presenza della mutazione in una coorte di pazienti con sospetta diagnosi di carcinoma all'analisi citologica, allo scopo di migliorare l'approccio terapeutico e la gestione del follow-up nei pazienti. I ricercatori si sono proposti di valutare l'efficacia della scelta chirurgica incrociando i dati derivati dall'analisi citologica e quelli relativi alla presenza della mutazione in BRAF, optando per la tiroidectomia totale con linfadenectomia nel caso di soggetti con lesione Thy4 e presenza della mutazione o per una terapia più conservativa in caso di pazienti senza mutazione (tiroidectomia senza linfadenectomia in caso di lesione Thy4 o lobectomia con istmectomia in caso di Thy3). I risultati dello studio, apparsi sulla rivista International Journal of Endocrinology, hanno sottolineato che un'alta percentuale di mutazioni in BRAF era presente nei pazienti con lesione Thy4: la mutazione BRAF V600E è stata identificata nell'86% dei pazienti. Di questi, la quasi totalità presentava una lesione maligna. La correlazione tra la mutazione e la diagnosi istologica è stata confermata nel 92% dei casi senza riscontro di falsi positivi.

Secondo la proposta terapeutica formulata, in quasi un paziente su 3 è stato possibile attuare una terapia meno aggressiva, propendendo per un lobectomia con istmectomia. Sulla base dei risultati emersi è ovvio che i soggetti nei quali ci sia stato un riscontro all'esame citologico della mutazione BRAF V600E debbano essere sottoposti ad una terapia chirurgica più estesa, seguita da visite di follow-up ravvicinate, mentre nei casi in cui non è presente la mutazione è possibile valutare un approccio chirurgico meno aggressivo. Lo studio genovese si riporta sulla strada tracciata da altri protocolli internazionali nei quali la presenza della mutazione è stata correlata non solo ai risultati dell'esame cito-istologico ma anche al rischio di metastasi o di recidive.

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